Distretti meridionali

BECATTINI GIACOMO

Distretti meridionali

Becattini Giacomo

C HE COSA vede Graziani nel Mezzogiorno in tormentosa, possibile, trasformazione da me "schizzato", o piuttosto alluso, nell'articolo precedente? E' presto detto: "un immenso laboratorio degradato che in apparenza ospita attività manifatturiere, in sostanza ospita il segmento più povero della produzione industriale, quello della lavorazione materiale". Con tutto il rispetto per le idee di uno studioso che molte volte ammiro, credo, sinceramente, che, questa volta, Graziani si sbagli. E che questo discorso, oltre che sbagliato sia controproducente per il Mezzogiorno, che viene, in pratica, invitato ad attendere un Messia che non verrà.

Questo mi riporta all'origine del nostro contrasto di vedute: l'interpretazione grazianea dello sviluppo per distretti. Egli ritiene - l'ha scritto infinite volte - che lo sviluppo manifatturiero realizzato nei distretti industriali e nelle aree distretto-simili dell'Italia "terza" sia una cosa da terzo mondo; produzioni di modesta qualità intrinseca, senza contenuto tecnologico, giusto con un pizzico di design, risultanti, in sostanza, da applicazione feroce di lavoro "semplice". Nonnulla, quisquilie, che qualunque paese in via di sviluppo può produrre a certe condizioni, non difficili a realizzarsi. Le fortune del nostro tritello di prodotti si sarebbero rette fin qui sulla politica della lira debole, ma nel mondo che ci sta dinanzi, esse non hanno futuro. "I vertici della tecnologia - scrive Graziani - restano nei paesi più avanzati, le regioni italiane del Centro-Nord occupano posizioni intermedie con alcuni contributi di design e di innovazioni minori, il Sud con le lavorazioni materiali, seguito su un gradino ancora più basso, dalla Turchia e dall'Albania, e altri paesi ancora".Credo di avere buoni motivi per ritenere che la scala ipotizzata da Graziani non esista nei fatti, ma sia solo interpolata da lui nei dati reali. Anzitutto le vicende di questi ultimi dieci anni ci dicono che la competitività dei prodotti del nostro made in Italy non è semplicemente un affare di basso prezzo per i compratori stranieri. Su questa idea si basavano le fosche previsioni di Graziani - e di molti altri, in verità - sulle sorti delle nostre esportazioni, non appena si fosse esaurita la spinta della lira debole. La realtà di questi ultimi anni ha mostrato che le cose stavano diversamente. I produttori dei nostri distretti hanno allargato e consolidato i loro sbocchi esterni anche nel periodo della lira forte, dimostrando così che nelle preferenze degli stranieri per il made in Italy c'era qualcosa di più di una risposta meccanica al basso prezzo. Naturalmente le cose sono sempre molto complesse e non è mai possibile discernere limpidamente le cause di un certo fenomeno; esiste quindi un certo margine d'incertezza sulla reale correttezza delle conclusioni da me tratte, ma mi sento di affermare con tranquillità che molti più studiosi di un tempo sono oggi disposti a riconoscere che le nostre piccole imprese dei distretti sono uscite abbastanza bene dalle vicissitudini valutarie dell'ultimo quinquennio. In ogni caso ciò che il periodo ha dimostrato "al di là di ogni ragionevole dubbio", è che l'ipotesi di fragilità esporta

tiva dei nostri distretti non ha trovato conferma empirica. L'impetuosa crescita delle tigri asiatiche non ha spazzato via, come certuni supponevano, queste nostre "fragili" creature. Vi è anzi motivo di pensare che quei paesi a costo del lavoro molto basso abbiano prudentemente "saltato" i prodotti e le fasi di produzione tipici dei nostri distretti - che non risultavano pane per i loro denti - per rovesciare la loro competitività - ironia della sorte - sui prodotti di serie delle grandi imprese e dei relativi "indotti". Le piccole imprese italiane che hanno sofferto di più la concorrenza dei paesi in crescita parrebbero essere, a starsene alle statistiche sull'occupazione industriale nei sistemi locali di produzione manifatturiera, i sub-fornitori della grande impresa.Questo non significa, ovviamente, che nessun distretto si sia trovato, e/o si trovi, in difficoltà - sarebbe ben strano se fosse così - ma solo che i nostri distretti, complessivamente considerati, avevano al loro arco altre frecce oltre la mera competitività di prezzo. In particolare ne è emerso chiaramente, a mio avviso, che, dove la concorrenza si giuoca sulle caratteristiche "qualitative" del prodotto, corrispondenti specularmente a preferenze ed esigenze "speciali" del compratore - consumatore finale o utilizzatore di un bene strumentale che sia - le variazioni di prezzo non determinano automaticamente e prontamente spostamenti di domanda. Certo, prima o poi, la modificazione del prezzo dei prodotti di un paese finisce coll'agire sulla loro domanda, ma si tratta di vedere con quali ritardi e su quali prodotti essa agisce. Tutto fa pensare che la domanda dei prodotti più tipici dei nostri distretti - il cuore della produzione distrettuale - risponda in ritardo e meno che proporzionalmente alle variazioni di prezzo. Né si può escludere - ma andrebbe verificato meglio - che il tendenziale restringimento della domanda venga contrastato dalle imprese distrettuali con un'accelerazione delle proposte innovative. Insomma, i produttori dei distretti sono altrettanti piccoli monopolisti parziali, consapevoli del fatto che il loro potere di mercato si regge sulla loro capacità di stimolare continuamente la domanda. Non disponendo dello stato rottamatore, non resta loro altra via che di promuovere il cambiamento continuo, sia scovando le esigenze latenti di consumatori finali e utilizzatori intermedi, sia accelerando l'obsolescenza culturale dei loro prodotti. Non è un'impresa facile, ma è un'impresa possibile, come dimostra l'esperienza. Ed è un'im

presa in cui il vantaggio del primo arrivato, se questi è accorto, può essere difeso.Il potere di mercato delle nostre imprese distrettuali dipende, naturalmente, anche dall'evoluzione della spesa complessiva al crescere - se cresce - del Pil medio mondiale. Ora, se gli strati emergenti dei paesi emergenti dedicano una parte del loro incremento di reddito ai beni non di serie per la cura della persona e della casa, e i produttori di quei medesimi paesi evitano il terreno insidioso, per chi disponga di lavoro "relativamente semplice", dei beni troppo differenziati e personalizzati, il giuoco è, pressoché, fatto. Il quadro reale è assai più complicato, naturalmente, e comprende vari ritorni di fiamma, ma queste ne sono le linee fondamentali.

Se questa nostra posizione è corretta, anche le affermazioni esplicite ed implicite di Graziani che i distretti industriali non costituiscono una soluzione valida per il Mezzogiorno, sollevano dubbi che si vanno a cumulare con quelli già espressi a proposito della sua valutazione negativa dei conati di sviluppo "spontaneo" del Sud. Se ci sono discrete prospettive di domanda e le imprese italiane dei distretti si sono solidamente installate nella rete distributiva di questo genere di beni, perché lasciare che gli imprenditori dei distretti decentrino le fasi più semplici, e/o meglio controllabili, dei loro processi, in Romania, anziché nel Mezzogiorno d'Italia? Perché incrementare occupazione e redditi a Timisoara, anziché a Grumo Nevano? Non basta: perché non consentire ai nostri lavoratori, anziché a quelli rumeni, di apprendere - partendo dal basso, è vero, ma non è quasi sempre così? - il know how delle nostre produzioni tipiche e, insieme ad esso, di cominciare a sentirsi, disponendo di un proprio, seppur modesto, reddito, "liberi cittadini"? Spero che non sfugga l'ironia delle virgolette.E' certamente ben disgraziata la situazione di un paese in cui il riscatto civile e l'industrializzazione di parti importanti debbono partire da condizioni produttive di illegalità, ma si crede forse che qualcosa del genere - forse meno grave perché la situazione non si era incancrenita a tal punto - non sia stato all'origine dello sviluppo degli oggi affluenti e rispettati distretti industriali del Centro-Nord? Certo, il problema del rispetto di leggi che, formalmente, valgono dalle Alpi al Lilibeo, esiste, ma che cosa vale una legge che condanna la maggioranza di chi lavora in Calabria a farlo illegalmente? Un paese così profondamente differenziato per condizioni economiche e sociali come quello che Graziani stesso ci dipinge (piena occupazione al Nord e disoccupazione rampante al Sud), o accetta di promuovere ufficialmente nuove migrazioni di massa, che risolverebbero, poste le premesse, la disoccupazione meridionale, o si libera dalla camicia di Nesso di condizioni formalmente uguali per soggetti radicalmente disuguali. E' un'affermazione grave, questa, me ne rendo ben conto, ma, come dice la Regina Rossa in Alice nel paese delle meraviglie, una volta detta una parola bisogna trarne le conseguenze.Riassumendo, se è vera la mia premessa, che la domanda di beni producibili vantaggiosamente dai distretti non è destinata, globalizzazione imperversando, a restringersi pericolosamente, e se i nostri distretti, per f

arvi fronte, ricorreranno sempre più alla delocalizzazione di alcune fasi dei loro processi produttivi, perché non indirizzare questa ricerca di subfornitura verso il Mezzogiorno, apprestando le condizioni, politiche, sindacali, giuridiche e infrastrutturali di "accoppiamenti efficaci" dei Sud più reattivi allo sviluppo coi centro-Nord più intraprendenti? Questo non pretende di esser, naturalmente, il grande disegno per l'Italia del terzo millennio, né esclude, risorse bastando, altri disegni per il Sud, come l'arrivo della grande impresa nazionale o straniera, né la promozione dell'innovazione tecnologica "pura e dura" - in linea, d'altronde, cogli sviluppi recenti dei distretti del centro-nord, in cui le grandi imprese collocano i loro sensori e la tecnologia più avanzata potenzia continuamente il know how pratico - ma significa avere, per il Sud, un progetto politico che s'innesta, secondandole, orientandole, organizzandole, su tendenze che già esistono.

(2-fine. La prima parte è stata pubblicata il 6 marzo)


Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it