V ALENTINO Parlato mi invita ad intervenire sulle idee espresse da Augusto Graziani in un suo recente intervento, "Il paese senza ciminiere", sul Manifesto (25-2-98). Accetto con piacere di riaprire una discussione avviata, per la verità, con uno scambio di articoli su Il Ponte e Il Manifesto, nel 1990. Ripartirei, anzi, da quell'articolo di Graziani, dal titolo, io sostenni, un po' disorientante: "Piccolo è veramente bello?", ripubblicato nel delizioso volumetto I conti senza l'oste. Quindici anni di economia italiana (Torino, Bollati Boringhieri, 1997).
Quale linea di azione proponeva Graziani in quell'articolo? Egli proponeva "un'azione convergente con la quale il sindacato intensifichi la protezione dei lavoratori delle grandi imprese, estenda la sua protezione ai lavoratori delle imprese minori; e al tempo stesso le forze politiche di sinistra si adoperino per organizzare gli imprenditori minori per garantire loro l'accesso al credito, l'innovazione tecnologica, il reperimento dei mercati". Va aggiunto, per chiarezza, che lo spirito del mio scritto ("Aiutati che lo stato ti aiuta", Il Ponte, n.2, 1990) con cui Graziani polemizzava, era precisamente che non si trattava tanto di proteggere e garantire - una prassi che, a mio parere, aveva già mostrato i suoi esiti perversi - quanto, al contrario, di aiutare la gente ad aiutarsi da sé. Dal momento che c'erano già, qua e là, nel Mezzogiorno, segni di risveglio dell'iniziativa economica, vi si suggeriva di secondarli e orientarli, aiutandoli, sostanzialmente, a crescere sulle loro stesse gambe. La tesi che pervadeva lo scritto era che non si possa avere sviluppo industriale senza sviluppo di vera e genuina imprenditorialità. Con tutti i suoi difettucci, naturalmente, fra cui quello di cercar di guadagnare il più possibile a spese di tutti i contraenti deboli che capitano a tiro. L'idea portante era dunque che solo un'industrializzazione che si misuri veramente con l'alea del mercato è una soluzione "solida" del problema meridionale. Le altre soluzioni, industria pubblica o industria comunque assistita, non sono soluzioni "solide", ma al più, se si congiungono condizioni non facili a verificarsi simultaneamente, premesse di soluzioni successive. Se avevo ragione in quelle affermazioni potevano le misure auspicate da Graziani contribuire a realizzare una solida "base industriale"? Questo, per me, era e resta, il problema.Io non conosco a sufficienza i sindacati del Mezzogiorno per esprimermi categoricamente sulla loro capacità di svolgere il ruolo che Graziani assegna loro, ma ho la sensazione che si tratti, spesso, di consorterie di dipendenti pubblici, pensionati, disoccupati, o lavoratori variamente assistiti, raccomandati e protetti. Tutte categorie rispettabili e degne di protezione - per carità - ma spesso preda e fomite delle idee più aberranti e balzane sulla logica dell'impresa e sui loro "diritti". Poco adatte, quindi, se le mie sensazioni dovessero risultare corrispondenti ai fatti, a promuovere un processo d'industrializzazione "solido".
La seconda idea di Graziani, di un appoggio delle forze di sinistra alle piccole imprese, mi trova, ovviamente, d'accordo in linea generale. Ma l'accordo finisce subito quando Graziani specifica il tipo di azione da condurre: garantire l'accesso al credito, l'innovazione tecnologica e, soprattutto, il "reperimento" dei mercati. Io pensavo nel 1990 e seguito a pensare, che molti dei guai del Mezzogiorno - e non solo del Mezzogiorno - trovino la loro origine precisamente nel fatto che si è cercato, nei passati decenni, di garantire, senza ovviamente riuscirci, troppe situazioni. In un mondo di aspra concorrenza come quello che ci sta dinanzi, l'atteggiamento da promuovere è precisamente quello contrario: a parte alcune situazioni particolari come infanzia, handicap, malattia e vecchiezza, nessuno deve cullarsi nelle garanzie; meglio incitare i cittadini a cercare in se stessi la propria garanzia. Certo, c'è il problema di chi parte svantaggiato economicamente e culturalmente, ma a questo vedo solo un rimedio che non sia, nelle circostanze poste, peggiore del male: un sistema di formazione che offra reali chances a tutti "i capaci e meritevoli". Lo svolgimento consequenziale di questo tema può incidere già profondamente, io penso, nell'ordine sociale esistente.
Venendo al nocciolo del problema - l'industrializzazione del Mezzogiorno - io penso che quest'ultimo, come tutte le zone depresse di questo mondo, non abbia - capitalismo imperante - altra chance di sviluppo industriale che, per dirla brutalmente, di aprirsi il varco, nella giungla fittissima della competizione mondiale, a colpi di machete, soffrendo e lottando per ogni singolo, modesto, avanzamento. Mettere in piedi un'impresa che si regge da sé sul mercato mondiale, questo è, semplificando drasticamente il problema, il mattone elementare su cui si può erigere l'industrializzazione meridionale. Ma è difficile che una singola impresa - aggiungo che non nasca "forte" - si ritagli una posizione stabile sul mercato mondiale. Un'impresa "normale" è maledettamente esposta alle oscillazioni della congiuntura e quindi è difficilmente capace di "costruirsi addosso" il retroterra socio-economico, localizzato o meno, necessario ad alimentarne stabilmente lo sviluppo ininterrotto. Diversa è la situazione per una pluralità d'imprese, tenute insieme da vincoli che non siano soltanto finanziari, ma affondino le loro radici nella costituzione morale dell'uomo. Questo è uno dei paradossi del mercato: i legami apparentemente "forti" dell'interesse, che corrono sul filo della logica dello scambio, sono in realtà "fragili", nel senso che si possono ribaltare da un momento all'altro, mentre i legami apparentemente "deboli" della parentela, dell'amicizia, della conoscenza, della "simpatia", del timore - molto spesso legati alla contiguità spaziale o alla comunanza etnica, o religiosa - si sfaldano più lentamente. E si ricostituiscono continuamente in nuove, spesso imprevedibili, forme. Chi vedesse nel capitalismo solo una moltitudine di agenti economici individuali tenuti insieme dal cash nexus, ne darebbe una versione riduttiva e incompleta. Parte essenziale del giuoco - anche se l'ideologia del mercato tende a nasconderlo - è costituita dal continuo scomporsi e ricomporsi di forme diverse di solidarietà, lealtà, appartenenza, fra gli uomini. Anche per concorrere efficacemente bisogna cooperare. Una società che ama rappresentarsi come composta da monadi irrelate, è in realtà composta da infinite "comunità", che si intersecano e sovrappongono fra loro, si formano e si disfano, più o meno lentamente, sui piani più diversi. Il sindacato e la classe operaia, ad esempio, sono solo alcune fra le "comunità" possibili, e forse non sono del tutto appropriate al problema e al momento storico che ci interessano.E' inutile (?) aggiu
ngere che l'industrializzazione non può essere tutta affidata alla emersione spontanea e fortunata di norme ed istituzioni consentanee all'industrializzazione effettiva, ma c'è una parte di essa che deve risultare da una costruzione consapevole. Qui ha il suo ruolo la politica in senso proprio e io non sono per diminuirlo, quel ruolo, né per scoraggiare le soluzioni audaci ed innovative. Mi basta che il politico e il tecnico che lo consiglia, tengano presente che il combustibile del movimento non è dato dalle idee, più o meno brillanti, o dalle risorse finanziarie, più o meno consistenti, del progetto, ma dalle aspettative e speranze degli uomini che il progetto considera. Se il progetto s'inserisce su di un movimento che già esiste, secondandolo, correggendolo, orientandolo e aiutandolo, il successo è più probabile. Se il progetto si fonda su di un'idea brillante in astratto, ma sganciata dai sentimenti degli uomini che la debbono realizzare, sarà, probabilmente, un buco nell'acqua.
Proviamo ora un esperimento mentale. Se un processo produttivo articolabile in fasi distinte e sboccante in prodotti a domanda differenziata e variabile (es. produzione di articoli di abbigliamento) s'infiltra in una comunità locale depressa, può accadere (come no) che esso attragga, monetizzandoli, gli ampi "ritagli di tempo" disponibili nei piani di azione dei membri di quella comunità. Se il processo si espande per progressiva specializzazione delle fasi si avranno, da un lato sempre nuove richieste di energie e capacità lavorative addizionali e dall'altro formazione di nuove offerte di lavoro. Secondo un modello ben noto(Smith, Marshall, Young), l'articolazione crescente della divisione locale del lavoro farà aumentare la produttività del medesimo, l'aumento della produttività allargherà il mercato dei suoi prodotti e così via.Certo, uno che osservi il fenomeno dall'esterno, a mente fredda diciamo, ci può vedere una mistura allucinante di sfruttamento e di autosfruttamento, ma se, interrogando i protagonisti con spirito aperto, egli cercasse di capire di quali aspettative quei sacrifici sono carichi, concluderebbe, in alcuni casi, che in quel caos c'è una logica economica non banale; non solo quella, immediatamente visibile, dell'arricchimento rapido di alcuni a spese di altri, ma l'altra più sottile e indiretta, di una mobilitazione di energie morali, di speranze, di ambizioni, d'invidie, che può cambiare, per vie che l'analisi sociale non ha ancora del tutto esplorato, il quadro psicologico di sfiducia e depressione della comunità. Un po', per fare un esempio che però richiederebbe qualificazioni, come quando, nella borsa valori, l'orso cede il passo stabilmente al toro. Se questo linguaggio "suggestivo" non convince, dirò che si tratta di una sorta di forzatura delle leggi dell'accumulazione capitalistica in uno dei non molti pertugi che queste lasciano sguarniti: la produzione di cose in cui le conoscenze pratiche, l'ingegnosità naturale, il gusto, hanno parte preponderante. Chi riesca ad insinuarsi in quel pertugio - largo migliaia di miliardi di lire - può emergere alla luce del mercato mondiale; chi è distratto o non ci crede, perde l'occasione e resta in fondo al pozzo.
Insomma, un complesso di imprese, molte delle quali piccole e piccolissime, e di lavoratori di vario tipo, sempre più specializzati, le une e gli altri, nelle diverse fasi di un processo di questo genere - che non richieda, almeno all'inizio, molto capitale, e la cui domanda si riproduca regolarmente - tende, se riesce ad agganciare gli sbocchi sul mercato, a trasformarsi in una macchina produttiva, localmente e non aziendalmente integrata. Una sorta di grande impresa, se vogliamo, la cui proprietà è ripartita, però, fra molti agenti, anziché concentrata nella sola famiglia, poniamo, degli Agnelli o dei Berlusconi. Una grande impresa di cui i lavoratori controllano alcuni aspetti importanti (rapporto con l'ambiente, infrastrutture produttive e non, ecc..) anche mediante l'elezione dell'ente locale.
E' quasi inutile precisare che il processo appena "schizzato" può svilupparsi in varie direzioni e che la possibilità che ne esca un distretto industriale canonico non è molto alta. In ogni caso sarà una sorta di piccolo "vortice sociale" che, in un ambiente dominato da scoraggiamento e ricerca clientelare del "posto", rinchiude sì ragazzi e ragazze, per quattro palanche, in sottoscala malsani, ma comunque li toglie dalla strada, dall'ozio, dall'avvilimento, dalle "tentazioni" criminali.
(1-continua. La seconda parte verrà pubblicata domani)