Jiang Zemin, l'amico cinese

SALVATICI LUCIO

CINA/USA

Jiang Zemin, l'amico cinese

Preceduto da qualche concessione in materia commerciale, il leader cinese parte per gli Usa. Una visita storica

Lucio Salvatici - PECHINO

J IANG ZEMIN va in America. Lo hanno fatto di rado i suoi predecessori alla guida del partito e dello stato, e nessuno negli ultimi 12 anni. La Cina nel frattempo è cambiata come pochi altri paesi al mondo e oggi Jiang Zemin si presenta da una posizione di forza acquisita durante il XV congresso del mese scorso.

Il presidente e segretario del Partito ha da tempo iniziato a costruire una politica estera di ampio respiro, facendo concessioni ai partner occidentali in campo commerciale e insieme rafforzando la posizione geostrategica della Cina nell'area del sud-est e nell'Asia centrale.

Jiang mette sul piatto delle consultazioni con gli americani la richiesta di un ruolo che la comunità internazionale è ancora restia ad assegnare al suo paese. La "normalizzazione" dei rapporti politici e commerciali tra Cina e Usa è quanto di più importante Jiang spera di portare a casa da Washington. E' per questo che alcune concessioni sono venute proprio alla vigilia del summit in campo commerciale, per venire incontro alle più pressanti richieste della controparte. Si tratta di una ulteriore riduzione delle tariffe doganali (la cui media è stata portata dal 23 al 17% dal primo ottobre, dato medio che non nasconde ancora una buona dose di protezionismo in settori chiave) e un accordo per acquisti di prodotti Usa per circa 4 miliardi di dollari, concluso in questi giorni da una delegazione che ha preceduto Jiang, che dovrebbe contribuire a ridurre il deficit commerciale lamentato dagli Stati Uniti. Il deficit, secondo fonti americane (da sempre in contraddizione con quelle cinesi) avrebbe già raggiunto in 31 miliardi di Usd nei primi 8 mesi del 97.

Lo scopo principale di questa operazione è ottenere da Clinton una posizione più morbida sull'ingresso della Cina nell'Organizzazione Mondiale del Commercio, nonchè l'eliminazione della pratica della revisione parlamentare annuale della clausola di Nazione più favorita, richiesta ancora nei giorni scorsi dal Ministro cinese del Commercio Estero signora Wu Yi.

La normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti, come ultimo passo dell'uscita dalla guerra fredda, è ormai da tempo tra gli obiettivi di politica estera del nuovo corso cinese. Questo processo passa anche attraverso una contrattazione più o meno aperta sulla questione dei diritti umani. Jiang ha annunciato di aver autorizzato in questi giorni il proprio ambasciatore all'Onu a siglare una delle due convenzioni sui diritti umani (quella sui diritti sociali ed economici), mentre la seconda (quella sui diritti politici) rimarrà ancora senza avallo cinese, per qualche tempo almeno. La firma era stata annunciata già da tempo. Il suo rinvio fino a oggi è strumentale alla preparazione di questo incontro, ma non sembra aver impressionato gli americani, che preferivano un segnale più concreto con la liberazione di qualcuno dei principali detenuti d'opinione. Anche in Cina la storica visita di Jiang ha riproposto petizioni e appelli in favore della liberazione di Wang Dan e Wei Jinsheng, i due più noti dissidenti cinesi in carcere. Ma a quanto pare il tema dei diritti umani farà solo da contorno ai colloqui sino-americani, grazie soprattutto alle manifestazioni di protesta che accompagneranno gli otto giorni di permanenza di Jiang sul suolo americano. Il consigliere per la sicurezza nazionale Sandy Berger ha infatti annunciato che per quanto non ignorabili, le questioni legate ai diritti umani non saranno al centro del summit. Anche i repubblicani in Congresso, da sempre sostenitori della punizione delle violazioni cinesi dei diritti umani, hanno acconsentito a rinviare la discussione di normative punitive nei confronti della Cina a dopo il summit (in particolare la controversa norma che vieterebbe a funzionari cinesi considerati responsabili di violazioni dei diritti umani in patria di mettere piede in Usa).

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