Portal, Jarman e gli altri frutti di Saalfelden

LORRAI MARCELLO

JAZZ

Portal, Jarman e gli altri frutti di Saalfelden

MARCELLO LORRAI - SAALFELDEN E' insoddisfatto, come più o meno sempre, Michel Portal, mentre ripone gli strumenti alla fine del suo concerto. Anche mentre è sul palco e soffia nelle ance, le sue sono, più che le espressioni care ai jazzisti sotto sforzo, le smorfie di un uomo irrisolto, problematico. Fa dannare i suoi partner: prima di cominciare distribuisce una scaletta, che poi non rispetta, prendendo alla sprovvista anche un batterista a tutta prova, con decenni di esperienza come Daniel Humair. Però Portal non gioca alle belle statuine: proprio lui, rinomato esecutore di musica classica e contemporanea accademica, nel jazz europeo è paradossalmente uno dei musicisti più jazzman fino in fondo. A sessant'anni suonati già da un po', in un'epoca di prodotti precotti trasmette un senso fortissimo della spontaneità e dell'estemporaneità della musica, dell'urgenza di comunicare, riportando indietro a quando la musica appariva molto più spesso di oggi una potente metafora del desiderio di trasformazione della vita e dell'esistente. In quartetto con Humair, Bruno Chevillon al contrabbasso e Andy Almer al pianoforte, Portal si tiene soprattutto sul clarinetto basso, di cui è maestro, alternandolo col sax soprano e col bandoneon.

Al contrario di Portal, Joseph Jarman sembra avere trovato la via della serenità: si è messo l'animo in pace e si è allontanato dall'alcol e dal fumo con lo zen, e appunto i suoi interessi zen erano stati il motivo accampato per separarsi dall'Art Ensemble of Chicago, il prestigioso quintetto di cui il sassofonista era membro. Forse c'era anche dell'altro, visto che Jarman torna ora a riaffacciarsi in Europa con partner diversi: in questa occasione come componente d'eccezione, assieme al violinista Leroy Jenkins, pure esponente storico dell'avanguardia neroamericana, del quintetto della pianista Myra Melford. Strumentistica di tutto rispetto ed eccellente leader, che si presenti n solo, in trio, in quintetto,con i suoi abituali collaboratori o con ospiti come Jarman e Jenkins, la Melford, senza darsene le arie, fa sempre tremendamente sul serio. Rimasta ad un certo punto della sua esibizione unicamente con il contrabbassista Lindsey Horner e il batterista Reggie Nicholson, ha impiegato poco a ricordare che fra i trii piano- basso-batteria il suo è in assoluto uno dei più appassionanti in circolazione. Ma il set del gruppo resterà impresso anche per un tema leggiadro e festoso di Jarman, nel quale il sassofonista ha preso al soprano un solo affascinante: il migliore, non formale omaggio che questo festival avrebbe potuto fare a John Coltrane. In un periodo in cui è difficile inventare il nuovo, i rifacimenti del passato si sprecano, e anche le rivalutazioni, più o meno giustificate. Raramente azzeccate e fresche come la rilettura dell'universo musicale di Gene Ammons, musica amabilmente colloquiale all'incrocio fra jazz, soul e r'n'b dell'epoca in cui il free jazz alzava la voce e strepitava. A cura di un sassofonista che si è fatto notare per ardite esperienze nel campo del jazz di ricerca, Ellery Eskelin, il mondo di Ammons rivive in una formula essenziale (sax tenore, chitarra e batteria), caratterizzata dall'estrema musica e dall'abilità nel restituire una musica di altri tempi con un sofisticato gioco sulle dinamiche e i timbri,e la sottile capacità di stabilire un nesso, di trovare qualcosa che suoni contemporaneo, avantgarde, in suoni, stilemi, dettagli marcatamente datati.

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