Mulhouse, covo di radicali europei

LORRAI MARCELLO

Mulhouse, covo di radicali europei

MARCELLO LORRAI - MULHOUSE

C ON TANTE che ne abbiamo viste e sentite, non sarà certo una chitarra elettrica suonata accarezzando le corde con un vibratore di forma fallica a farci provare dei brividi. Il quartetto olandese di Jacques Palinckx, col fratello Bert, contrabbasso, Han Buhrs, voce, e Jim Meneses, nativo di Philadelphia e europeo di adozione, batteria, fa pensare ai Cream in versione hardcore, gioca col rumorismo e il parodismo, ma Arto Lindsay e Eugene Chadbourne sono parecchio lontani, e nel suo voler essere non convenzionale finisce per diventare banalmente prevedibile. Assai più pudica ma nella sostanza anche molto più audace e sensuale, Frances-Marie Uitti, anche lei olandese, si concede l'unica perversione di suonare il violoncello con due archetti: rigorosa, austera, essenziale, conquista gli ascoltatori puntando tutto sulla consistenza e la profondità della musica. Uitti è una figura atipica, al confine fra improvvisazione e musica accademica, ha fatto in tempo a collaborare per diversi anni con un personaggio eterodosso come Giacinto Scelsi, che ha scritto per lei, e mostra quel temperamento, quell'attitudine che sono difficilmente definibili ma che distinguono di primo acchitto i musicisti di razza dell'area "radicale" europea: quella classe che, nell'arco di tre quarti d'ora di solo-performance, o c'è o non si può fingere. Non è forse un caso che gli applausi siano scroscianti e che la costringano a più di un bis. E non è del tutto casuale neppure che, seguita nella cornice della Chapelle Saint-Jean, nella sua bellezza l'esibizione della Uitti solleciti qualche ricordo che porta con sé riflessioni non proprio allegre.

Il ricordo è quello della Uitti in un altro luogo di culto sconsacrato, la chiesa di San Zeno a Pisa, nel corso dell'edizione 1982 della compianta rassegna del jazz di Pisa, e alla fin fine quasi senza eccezione i musicisti che volano più alto in questa rassegna erano già in attività se non trenta, come il sassofonista tedesco Peter Brotzmann, almeno quindici anni fa, come la Uitti, che allora era una radiosa rivelazione. Ma non è Mulhouse che non sa vedere una generazione che assicuri il ricambio, è che in pratica questa generazione non esiste, che la musica radicale europea non è riuscita a figliare.

Gli applausi scrosciano anche per il francese Michel Doneda, pure alla Chapelle Saint Jean (dove i concerti sono mattutini e gratuiti, e raccolgono un pubblico attentissimo): pure lui non è un radicale della prima ora, ma neppure un ragazzino alle prime armi. Il suo solo di soprano ha alle spalle riferimenti evidenti come Steve Lacy e Evan Parker, ma Doneda non ha l'aria di uno che si accontenti di muoversi semplicemente nel solco di qualcun altro. Con l'utilizzo sistematico della tecnica della respirazione circolare, e ad un certo punto l'emissione contemporanea di due linee di suono distinte, il suo è un solo che inchioda, che non dà respiro: da una parte per il suo carattere sonoro materialmente "tutto pieno", spasmodico, dall'altra per il vocabolario molto ampio, per la varietà di soluzioni che utilizza. La sensazione è quella di toccare una palpitante ricerca in corso, e anche quella, confortante, di un esempio di tradizione radicale che si riproduce con la capacità di rinnovarsi e progredire.

Non solo qui a Mulhouse, in una rassegna che in cinque giorni propone più di venti concerti, e non solo in Italia, il sassofonista palermitano Gianni Gebbia rappresenta la rara eccezione di un musicista under-40 di interessi radicali: il chitarrista marsigliese Jean-Marc Montear un under-40 lo è stato fino ad un paio d'anni fa, e assieme con Meneses, formano un trio stabile, anche se, ed è un peccato, con scarse occasioni di riunirsi in scena. L'improvvisazione è una internazionale che passa sopra le frontiere e parla una lingua comune, e Gebbia, globetrotter in contatto con musicisti di area improvvisativa di mezzo mondo, fa la sua brava figura anche con il New European Saxophone Quartet, con il bulgaro Anatoly Vapirov e i lituani Vytas Labutis (altro under-40) e Petras Vysniauskas: bell'affiatamento, e repertorio vivace e variato. Per questa internazionale qualcuno cerca proseliti in nuovi paesi: un capostipite come Brotzmann, che in tanti anni non ha perso un briciolo di voglia di suonare e fare incontri, si presenta in trio con il chicagoano Hamid Drake, uno dei suoi batteristi prediletti, e per la prima volta con il marocchino Mahmoud Gania al guembri, sorta di chitarra-basso tradizionale. Ognuno conserva la propria identità, senza smancerie, ma la ripetitività ipnotica dello strumento a corde si integra benissimo con la esuberante percussione di Drake, e il suono aspro e l'improvvisazione ossessiva di Brotzmann al tarogato, un clarinetto esteuropeo, hanno la forza e la poesia primordiale delle gaita di Jajouka.

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