L' ABBIGLIAMENTO è quello d'ordinanza: scarpe da pallacanestro, pantaloni militari mimetici e maglietta; ma il look è cambiato: John Zorn ora sfoggia una inedita lunga chioma, e nella sua tenuta da giovane "antagonista" non riesce del tutto a mascherare qualche chilo di troppo che adesso lo accomuna a tanti altri quarantenni come lui. Cambiamenti che bastano a renderlo di primo acchitto quasi irriconoscibile, e a dargli un'aria meno nevrotica del solito. Ma appena imbocca il vecchio sax alto è sempre lo stesso John Zorn da manuale, teso, perentorio e volendo anche un po' gigione nei suoi eccessi. Come quando, non pago di prodursi col microfono attaccato alla bocca in un saggio di cavernosa vocalità grind-death eccetera, si esibisce in conati da vomito che sfociano anche in liquidi salivari che colano abbondantemente sul palco, in una foga di iperrealismo assolutamente esilarante. Per una performance del genere la compagnia è quella giusta: il trio Painkiller del bassista e produttore di culto Bill Laswell, che, vestito di scuro, con barba e basco nero, è invece rimasto del tutto fedele alla sua consolidata immagine militante-castrista. Con Mike Harris, che deve la sua fama alla partecipazione al gruppo metal Napalm Death, Laswell e Zorn mettono in scena un'oretta di atmosfere aggriccianti, selvagge e tenebrose: apparentemente eterodosso rispetto alla tradizione di Verona Jazz, in questa edizione della rassegna la loro musica che tracima abbondantemente nel rumorismo senza remore è quanto di più coerente sia stato dato di sentire con l'ispirazione di un festival che per anni ha agitato il free jazz neroamericano come una bandiera.
Rispetto alle urgenze del free storico naturalmente qui siamo su un altro pianeta: quella di Laswell, Zorn e Harris è una recita a soggetto, il divertissement di attori consumati che come un autore di truculenti fumetti o romanzi dell'orrore non vogliono davvero spaventare ma semplicemente divertire. Col merito però di ricordare il valore catartico (quasi rilassante, ascoltandoli) dell'aggressività in musica, e l'importanza di sonorità e approcci che il mondo della musica abituale colpevolmente tende a rimuovere. Uno dei motivi di maggiore interesse di tutto un versante del lavoro di Laswell e di Zorn, al di là del valore intrinseco delle musiche, è stato e continua ad essere del resto proprio quello di sottrarre questo genere di tensioni dalla dimensione di subculture troppo spesso sottovalutate se non disprezzate come quelle del metal e dell'hardcore, che soddisfano un'esigenza poco considerata dalla critica ma che risponde ad esigenze profonde, e anche per molti versi salutari, non a caso diffuse nel mondo giovanile. Anche a leggere tra le righe di un set come questo di Painkiller si potrebbero poi notare delle differenze: soprattutto quella fra Laswell e Zorn, forse più "serio" e realmente "dentro" il primo, più superficialmente ludico il secondo. Non per niente, la migliore celebrazione della rivoluzione in musica proposta da Laswell, il gruppo Last Exit, oltre al compianto Sonny Sharrock (proveniente dall'esperienza del free jazz neroamericano) alla chitarra, allineava, nei ruoli che qui erano di Zorn e di Harris, Peter Brotzmann, caterpillar dell'improvvisazione radicale europea e, Ronald Shannon Jackson, tonitruante e travolgente batterista con una storia di collaborazione con personaggi come Albert Ayler, Cecil Taylor, Ornette Coleman.
Rispetto a Last Exit, qui siamo in un oltre, non nella celebrazione ma nella rappresentazione pura, e tuttavia liberatoria e con tocchi e sfumature di classe, come nei magnifici suoni delle corde di Laswell e nello stile sempre non comune dell'improvvisazione di Zorn. Quelle di Painkiller sono state le ultime battute di un festival che si è snodato per tre tardi pomeriggi e tre sere saltando di palo in frasca come ormai purtroppo si usa nella stragrande maggioranza dei festival italiani che continuano a definirsi "di jazz". Dalla musica sottile e piena di feeling non appariscente del gruppo dell'anziano Yusef Lateef e dall'assai più giovane Adam Rudoph, con uso di timbri e arrangiamenti pregevoli e originali, al jazz neroamericano, non disprezzabile ma piuttosto convenzionale dei complessi di Mark Shim e di Vincent Chancey; dalla chitarra di John Scofield al ngoni e al balafon di Sarala, connubio di jazz e musica dell'Africa occidentale, modesto non per la defezione dell'ultima ora di chi l'ha pensato, l'ottantenne e glorioso pianista Hank Jones, ma per il carattere intrinseco del progetto e per la mediocrità un po' cartolinesca del gruppo africano. Fino alla serata di richiamo all'Arena, con protagonisti Van Morrison e Sting. Che, morta la stragrande maggioranza delle figure del jazz in grado di assicurare l'"evento", i festival del jazz si riducano a ricorrere ad altro per costruire appuntamenti "spettacolari", invece di approfondire la ricerca di nuovi talenti e la documentazione del lavoro dei talenti consolidati, ricorda un po' tristemente la politica di quella sinistra che per vincere ritiene di dovere andare al centro, col risultato di diventare centro (nella migliore delle ipotesi) e di non essere più sinistra.