Pragmatico e giacobino

ZUFFA GRAZIA

Pragmatico e giacobino

GRAZIA ZUFFA -

A VEVO INCONTRATO Michele Coiro pochi giorni prima della sua morte. "Ho visto che mi ha 'bacchettato'", mi aveva detto subito, alludendo al mio articolo sul manifesto (14 maggio), in cui criticavo la proposta di applicare ai detenuti fuori dal carcere il "bracciale" elettronico. Per nulla risentito, ci teneva a spiegarmi il suo punto di vista. Con la sua solita pacatezza, e quel briciolo di ironia che era il suo modo di aderire umanamente all'interlocutore e ai problemi di cui discuteva, aveva tenuto a precisarmi che nelle sue intenzioni il bracciale avrebbe dovuto servire solo ai condannati agli arresti domiciliari. "Lei crede che sia meglio per un detenuto vedersi piombare a casa i controllori nel cuor della notte? Pensa che abbiano modi garbati?", aveva tagliato corto.

L'osservazione mi colpì. Era spia di un pragmatismo che non aveva niente a che fare con le civetterie "antideologiche" tanto in voga né con gli equilibrismi pseudo-politici; significava uno sforzo sincero di cambiare cercando di capire le ragioni e la sofferenza di chi è "dentro".

Non a caso nelle sue prime dichiarazioni, subito dopo il suo nuovo incarico, aveva parlato delle inumane condizioni dei detenuti nelle carceri italiane sovraffollate. "La visita a San Vittore mi ha angosciato - dichiarava nel novembre scorso a Fuoriluogo- è una situazione terribile, 'classista' perché lì vanno a finire gli extracomunitari e la piccola manovalanza". A distanza di pochi mesi qualcosa l'aveva cambiata davvero: oggi i detenuti a San Vittore sono 1.600, invece dei 2.200 di allora. E aveva in programma tra giugno e luglio un nuovo giro di visite nei penitenziari.

L'umanizzazione del carcere cui Coiro stava lavorando non significava solo migliori condizioni di vita, ma anche diritti: come quello alla sessualità e all'affettività. La legge non è stata ancora approvata, ma Michele Coiro aveva lanciato un segnale politico di disponibilità alla riforma, quando nel maggio scorso aveva chiesto ai direttori di trovare i locali adatti per gli incontri privati dei detenuti. Nel riformismo di Coiro non c'era alcuna inclinazione stucchevole di stampo paternalistico e salvifico. E' stato fino in fondo un garantista. Così si era dichiarato per l'abolizione dell'ergastolo. E per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Ed era garantista sulla questione più scottante, quella delle droghe: su cui il fronte del neogarantismo all'italiana, sempre pronto a denunciare gli eccessi dei magistrati, in genere si dissolve come neve al sole. Depenalizzazione del consumo di tutte le droghe, legalizzazione delle droghe leggere, somministrazione controllata di eroina: più volte Coiro si era espresso a favore di queste modifiche legislative, senza le prudenze e i distinguo dei politicanti, ma con la decisione del vero "politico", ossia del cittadino che combatte per le sue idee più che per la stabilità della sua poltrona. Sapeva bene, Coiro, che nessuno sfoltimento del carcere sarebbe stato possibile se non si fossero circoscritti radicalmente i reati punibili colla reclusione. E abbassando le pene; così aveva denunciato, pacato al solito ma fermo, che la legge Jervolino-Vassalli, con quel minimo di pena spropositato di otto anni per reato di spaccio, aveva avuto un effetto perverso di "trascinamento" in alto delle condanne per tutti i reati, contribuendo a "rigonfiare" il carcere.

La prima volta che ci eravamo visti mi aveva parlato della sua dolorosa "scoperta", come neo direttore dell'amministrazione penitenziaria: la detenzione dei bambini, insieme alle madri condannate. Di questi bambini si è ricordato ancora nel nostro ultimo colloquio. Nel frattempo, si era adoperato "pragmaticamente", chiedendo la grazia per alcune. Ma si aspettava una soluzione: "Le madri devono star fuori e basta", sono state le sue ultime parole. In fondo, Michele Coiro, oltre che un pragmatico, era anche un "giacobino", quando occorreva.

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