La performance del desiderio

GRISPIGNI MARCO

La performance del desiderio

Il movimento del Settantasette abbandona la strada dell'agire politico e occupa le stanze dell'innovazione culturale

MARCO GRISPIGNI - Uno dei motivi che giustificano un'attenta riflessione sul movimento del '77 è l'impossibilità di liquidarlo semplicemente come l'ultima manifestazione di massa dell'estremismo di sinistra. Al contrario, nelle strade e nelle università si manifesta chiaramente un passaggio di fase: il '77 è un movimento che chiude definitivamente un ciclo storico-politico e ne introduce (con alcune significative anticipazioni) un altro. Nel movimento si consuma la crisi dell'agire politico. Proprio fra i giovani, che a partire dal '68 (e in realtà anche da prima) erano stati la punta di diamante dell'egemonia della politica sulla società, e in particolare fra i giovani estremisti, considerati gli alfieri della politicizzazione totale, gli strumenti della politica si sgretolano, perdono senso, divengono arnesi inservibili, buoni per un museo etnografico, ma totalmente inutili non solo per la trasformazione della realtà, ma anche per la sua comprensione. La diffusione onnipervasiva della politica, che sembra segnalarne il trionfo, in realtà, investendo campi e ponendo delle domande alle quali la politica stessa non è in grado di rispondere, svuota dall'interno le sue categorie e ne annuncia il carattere obsoleto e residuale. L'azione dei grandi partiti di massa si rinchiude nelle strategie e nel dialogo autoreferenziale, interpretando la politicizzazione totale come l'occupazione manu militari dell'intera società da parte del ceto politico; allo stesso tempo i movimenti sociali invadono il campo dell'innovazione culturale appendendo e iniziando a utilizzare altri linguaggi, altri codici. Talmente evidente e rilevante è il cambiamento in atto che assai spesso, soprattutto nei primi mesi di vita, il movimento viene accusato di non essere politico. I giudizi sprezzanti, che provengono dal Pci e da alcuni settori della nuova sinistra, sottolineano le carenze di analisi, la mancanza di logica politica, di strategia delle alleanze, di comprensione materialista delle condizioni economiche. Nessun dubbio si affaccia nella mente dei critici che in realtà nel movimento si tenti un superamento proprio di tutto questo. La crisi delle ipotesi rivoluzionarie e riformiste, alla quale ho fatto riferimento in precedenza, ha liberato un potenziale prima "represso" dalla prospettiva politica. (...)

La centralità del desiderio e del soggetto desiderante scompaginano qualsiasi centralità "oggettivamente data". Il desiderio diviene movimento e il movimento si fa performance, evento. Non c'è presa del potere negli orizzonti (e negli interessi) del movimento, c'è il suo dis/velamento. Certamente il '77 non è solo questo; è anche (e dopo marzo soprattutto) estremismo politico, l'insurrezionalismo dell'Autonomia operaia, il marxismo rivisitato dei gruppi neoparlamentari dell'estrema sinistra, la radicalizzazione della polemica antiriformista contro il Pci. Ma a fianco della politica, e spesso proprio nelle pieghe dell'estremismo politico, si nasconde questa prima grande sperimentazione del suo superamento, senza la quale l'interesse per il 1977 sarebbe giustamente confinato agli studiosi delle vicende della nuova sinistra e a quelli dei differenti terrorismi di sinistra che a lungo hanno insanguinato il paese. In realtà, proprio nel ghetto dell'estremismo si sperimentano nuovi linguaggi e nuovi comportamenti che negli anni successivi si diffonderanno non più solamente fra i giovani, ma nell'intera società. (....)

La politica si rinchiude nel palazzo, abbandona le strade e le piazze perché questo è quello che vuole il ceto politico come la maggioranza silenziosa della sterminata piccola borghesia, stanca del disordine e della continua ridefinizione di ruoli e gerarchie. (...)

Gli intellettuali più raffinati del Pci teorizzano "l'autonomia del politico", cioè l'assolutizzazione del concetto di politica intesa come arte del sapere governare: i conflitti sociali, le dinamiche complesse e contorte di una società in profonda trasformazione rimangono estranee a questa scienza. L'esito elettorale del 20 giugno stempera le paure del "sorpasso" comunista e del crollo della Dc e conduce a una situazione politica anomala con un governo sorretto da una maggioranza "bulgara" (anche se litigiosa) e un'opposizione parlamentare inesistente per la sua esiguità numerica. La strategia berlingueriana del compromesso storico e quella morotea delle larghe intese sembrano realizzarsi con la loro visione organica della società, dove il conflitto viene espunto come un segnale di malessere. (...)

In questo momento di riduzione degli spazi di partecipazione attiva alla politica, la presa ferrea della politica sulla società comincia ad allentarsi. Le strade divergono in maniera sempre più evidente. Le parole, le categorie interpretative, gli strumenti della politica non riescono più a interpretare i cambiamenti in atto. O forse più che di incapacità si tratta di disinteresse. La politica, ridotta a gioco fra i partiti, strategia tutta interna al "palazzo", si disinteressa della minutaglia e del "brulichio" esterni, trincerandosi nella sua torre d'avorio che è potere, che è (diventerà) denaro, che è estraneità.

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