LA VIA CINESE

MASI EDOARDA

La via cinese

EDOARDA MASI -

L A PRIMA metà del nostro secolo ha visto in Cina il più grande movimento rivoluzionario di liberazione di popolo; la seconda metà, la straordinaria drammatica ricerca di una via al socialismo; e infine il cammino verso la restaurazione del contesto prerivoluzionario. Dalla stampa rivolta al largo pubblico questa storia è semplicemente cancellata, e sostituita dall'immagine di un generico orrore e disastro, seguito poi da un ritorno sulla retta via.

E' un aspetto del grande polverone sollevato a offuscare la memoria del passato recente, con l'aggiunta di alcuni ingredienti ideologici atti ad accrescere la confusione e destinati a distrarre le menti dalla ricerca dei reali motivi del fallimento dei regimi seguiti alle rivoluzioni socialiste. Nella "costruzione del socialismo in un solo paese" l'involuzione delle forme era stata alimentata dall'incapacità di proporre una effettiva via d'uscita dal sistema di controllo e riproduzione del capitale. Assunta la soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione quale condizione sufficiente per "costruire" il socialismo, non venivano messi in discussione il concetto e la pratica dello "sviluppo", inteso nel senso di riproduzione allargata del capitale. Scomparsa l'autogestione dei produttori nei consigli, la forza-lavoro restava nella condizione di merce. I lavoratori godevano tuttavia di alcuni beni "socialisti", come l'assenza di disoccupazione, sicurezza del posto di lavoro, alloggio, assistenza sanitaria e istruzione. E l'ideologia dominante restava il socialismo. Questi due fattori finivano per cozzare contro le finalità dello "sviluppo" e della riproduzione allargata.

La contraddizione fra quello che il sistema era e quello che avrebbe voluto essere produsse enormi sofferenze, stagnazione, scontento e rivolta popolare latente o esplicita. Fino alla disgregazione. Il solo mutamento possibile si sarebbe allora presentato nel senso di eliminare gli ostacoli all'inefficienza e allo "sviluppo", nel senso cioè della completa liberazione del capitale, col ritorno alla proprietà privata e al rientro a pieno titolo nel mercato mondiale. In condizione subalterna.

Il conflitto fra sistema "alla sovietica" e istanze socialiste si è fatto esplicito su scala di massa fra i comunisti per la prima volta in Cina, dove si è arrivati a identificare la burocrazia come il vero e proprio gestore del capitale, con fini analoghi a quelli dei proprietari e manager privati. Negli anni sessanta gli operai di Shanghai designavano il modello di sviluppo alla sovietica come "via capitalistica".

Nel partito comunista cinese le divisioni fra i dirigenti coincisero sempre più con due opzioni opposte, corrispondenti agli opposti interessi di classe nel paese. Una parte tendeva a riprodurre il modello di sviluppo seguito in Unione sovietica. L'altra mirava all'autogestione popolare decentrata con comunicazioni orizzontali e dirette fra settore a settore lavorativo, territorio e territorio: assegnando la priorità alle condizioni di vita della massa diseredata e all'eliminazione degli squilibri fra province ricche e povere, e puntando sull'azione collettiva, la solidarietà e un tendenziale egualitarismo.

La "lotta fra le due linee" nei primi anni sessanta, poi la rivoluzione culturale del 1966-68, che avrebbero dovuto esplicitare la lotta di classe, risultarono strangolate dall'assenza di rappresentanza politica. Infatti gli interessi contrapposti, pur evidenti, non venivano dichiarati a causa della struttura a partito unico e del presupposto ideologico dell'unità di tutto il popolo. In queste condizioni il "fuoco sul quartier generale" poteva solo innescare un processo di autodistruzione, o ridursi a una finzione. La rivoluzione si arrotolò su se stessa, mentre i ribelli si considerarono traditi da Mao Zedong. Una volta esplose, le contraddizioni non risolte si aggravarono all'estremo.

La struttura unitaria ed elefantiaca del partito e dello stato alla fine resistette allo sfascio (che non aveva coinvolto in generale l'economia del paese). La nomenklatura si ricompose e - morto Mao Zedong - poté procedere alle sue "modernizzazioni" sulla via capitalistica. Contrari alle opzioni di decentramento, solidaristiche ed egualitarie, erano anche gli interessi di diversi strati sociali intermedi, dai contadini più ricchi ai ceti urbani colti e semi-colti, a una buona parte dei quadri. Fra questi la restaurazione ha cercato il consenso.

La riforma è iniziata dalle campagne, con lo smantellamento delle Comuni e con misure di sostegno economico alle famiglie che contrattavano con lo stato la gestione della terra. Ne è risultata una corsa all'arricchimento, attraverso il superlavoro, con notevole aumento della produzione nei primi anni '80 e col miglioramento delle condizioni alimentari in tutto il paese. Con le contropartite dell'estrema parcellizzazione dei fondi agricoli, l'interruzione del processo di meccanizzazione e l'introduzione massiccia di fertilizzanti, l'abbandono delle opere di infrastruttura e regolazione delle acque, l'espulsione dalla terra di decine di migliaia di contadini.

La successiva riforma nelle città si è indirizzata dapprima a incentivare le attività commerciali e industriali private e cooperative di scala media e piccola. Ne è risultato l'innalzamento del tenore di vita di una parte della popolazione. Nello stesso tempo ha avuto fine il successo economico nelle campagne, dove i prezzi dei prodotti industriali per l'agricoltura sono nuovamente cresciuti, la spinta al maggiore profitto ha indotto molti abitanti a dedicarsi ad attività commerciali non agricole, con abbandono delle terre.

La debolezza economica dello stato si registra nella scarsità di capitale da investire e il conseguente incentivo al capitale privato, e cioè all'ingresso del capitale straniero. Per questo vennero creati i poli di sviluppo detti "zone economiche speciali". Grazie all'intreccio di interessi fra burocrazia finanziaria e trafficanti privati, e ai bassissimi salari, con sfruttamento disumano, garantiti dall'immenso esercito di riserva dei contadini espulsi dalla terra, si è prodotto l'arricchimento estremo di strati sociali minoritari. Si è allargata la forbice fra i pochi ricchi e i molti poveri e impoveriti. Il boom economico ha avvantaggiato ulteriormente gli arricchiti, mentre l'inflazione (sconosciuta nella Rpc fino agli anni settanta e giunta nel '94 al 25 per cento) rovinava i ceti a reddito fisso, e danneggiava anche parte del ceto urbano già favorevole alla svolta restauratrice.

Quanto alle imprese di stato, che coprono ancora circa il 40 per cento della grande industria, non possono reggere la concorrenza con le imprese private e sono attaccate dai "riformatori" per la loro inefficienza. I lavoratori dipendenti nelle città attuano una difesa disperata della "ciotola di ferro", ma i licenziamenti in massa sono già cominciati.

Cresce lo squilibrio fra le province del sud e costiere e quelle del nord e interne. Si creano legami sempre più stretti fra le amministrazioni provinciali, i nuovi ricchi e il capitale straniero, in opposizione al governo centrale, con tendenza al compradorismo e anche alla rinascita dei "signori della guerra". La burocrazia è divisa fra i fautori della liberalizzazione totale (e incondizionata dipendenza dall'estero) e i sostenitori del controllo statale. Questi ultimi impiegano in misura crescente mezzi di pressione ideologica (ritorno ai valori confuciani), di coercizione poliziesca e di repressione, di fronte alla diminuzione del consenso anche fra le masse intermedie.

Cresce fra la popolazione il timore di una nuova dipendenza della Cina dagli stranieri, e lo spirito di autodifesa si orienta verso sentimenti nazionalistici.

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