REVISIONISMI Un'emblematica intervista col boia

DE SIMONE CESARE

REVISIONISMI Un'emblematica intervista col boia

CESARE DE SIMONE

P ARLA, DAGLI SCHERMI RAI, il "boia di Albenga" Luciano Luberti. E' il pezzo forte del programma televisivo I vinti, curato dal regista neofascista Sergio Tau che dopo aver dato voce, su Radiotre, ai vinti mercenari della Rsi adesso ce li fa vedere in faccia su Raiuno. Luberti è il vero prototipo del "ragazzo di Salò": arruolatosi ventenne nella polizia militare nazista per "difendere l'onore d'Italia e combattere sul serio gli inglesi" giura fedeltà a Hitler e a Himmler e con la divisa della Feldgendarmerie tedesca opera ad Albenga, presso Savona, guadagnandosi subito dalle popolazioni terrorizzate la qualifica di "boia": rastrellamenti e villaggi bruciati, centinaia di persone spedite nei lager in Germania, bestiali torture ("ho visto la stanza dove operava Luberti, le pareti tutte sporche di sangue" ricorda un testimone), donne a cui tagliava i seni e che stuprava con bottiglie (infine le ammazzava), 59 tra partigiani e civili innocenti massacrati con un colpo alla nuca e sepolti in una fossa comune alla foce del fiume Centa. Un partigiano di 19 anni ucciso con una spranga arroventata infilata in un orecchio.

Era un pazzo, sanguinario e sadico, Luberti. Dopo la liberazione viene condannato a morte, pena commutata in 19 anni di cui ne sconta solo 9. La nuova democrazia italiana è clemente, troppo. Ma pazzo, sanguinario e sadico Luberti rimane, perché nell'aprile 1970 assassina la convivente e ne conserva per un mese il cadavere in casa, sul letto ornato a mo' di altare. Lo scopre la polizia, avvertita dai vicini di casa nauseati dal tanfo. Il boia finisce al manicomio criminale di Aversa (una sentenza assai blanda, firmata - toh, chi si incontra! - dall'allora giudice di tribunale Filippo Mancuso) ma dopo qualche anno torna libero.

Luciferino e ancora pienamente convinto di aver operato nel giusto ("un ordine è un ordine" spiega categorico) Luberti racconta in tv, sghignazzando, come ha fatto "un buco grosso così" sparando nella testa di un partigiano arrestato, come ha violentato una donna ("sì, è possibile. Con una bottiglia? Non me lo ricordo"), come ha arrestato e ucciso e massacrato. Orrore e disgusto travolgono lo spettatore ma non il presentatore del programma e intervistatore di Luberti, l'ineffabile sociologo patavino Sabino Acquaviva che presenta il boia come "un personaggio emblematico della guerra civile" del quale dobbiamo "capire le ragioni" e dunque, in base a questa "nuova comprensione riscrivere la storia della guerra

civile". Proprio così, dice: guerra civile, e mai una volta che usi la parola Resistenza, o guerra di liberazione nazionale. Crimini ed eccidi hanno commesso i partigiani, crimini e stragi i fascisti, guerra civile tutta condannabile sia quella della Rsi che quella del Cln: è la poltiglia antistorica della "linea Acquaviva", il sociologo agnostico estimatore del boia di Albenga. Così lo storico Gian Enrico Rusconi, chiamato a commentare, è costretto a cantargliene quattro: "Ma insomma, lo vogliamo dire o no che i partigiani si battevano per la libertà, per costruire questa nostra Repubblica democratica, anche se piena di difetti, e che la Rsi combatteva invece per il nazismo e per il mostruoso ordine hitleriano?".Acquaviva boccheggia, non sa più che rispondere e farfuglia "sì, ma dobbiamo capire". Capire cosa?

La sera stessa di lunedì scorso, in cui la Rai del presidente Siciliano, recidiva -dopo le oscene 20 trasmissioni radiofoniche della "voce dei vinti" - mandava in onda la prima puntata di questa mostruosità, a Torino veniva presentata in anteprima La tregua, il film di Francesco Rosi omaggio al grande scrittore Primo Levi. Due avvenimenti speculari e antitetici, due sguardi opposti sull'orrore puro del nazifascismo.

Luberti il boia stupratore era lì, vispo e allegro, a spiegare che i partigiani erano solo dei criminali che non rispettavano l'ordine sancito dalla Feldgendarmerie e che lui dunque faceva solo il suo dovere ammazzandoli e spedendoli nei lager. Ed erano lì i suoi mentori, Tau e Acquaviva, a spiegarci che "la ferocia fa parte della natura umana e si nasconde dietro qualsiasi ideologia" anche quella della Resistenza, e che "anche i partigiani erano belve".

Levi invece non c'era, in quel cinema di Torino dove i massimi rappresentanti della cultura italiana hanno visto il film e discusso di lui. Perché Levi, come disse allora Elie Wiesel, "è morto ad Auschwitz quarant'anni dopo": si uccise infatti nel marzo '87 perché l'incubo del lager non lo abbandonava più e gli era divenuto insostenibile. L'ultima parola del suo romanzo La tregua, infatti, è proprio la cupa convinzione dell'impossibilità della giustizia quando si affronta il tema dell'universo concentrazionario e delle stragi nazifasciste, e la spaventosa recidività del male, di quell'inferno che non si riesce a mantenere sotto la pietra tombale della storia.

A Luberti, vivo e perdonato, è permesso tornare a sghignazzare sulle sue vittime; idioti e fascisti ce lo hanno riproposto a colori, con musichette di sottofondo, cercando di convincerci alle sue ragioni, alle ragioni del lager hitleriani e delle forche di Salò equiparati alle ragioni della libertà, della dignità e dell'etica della Resistenza. C'è da supporre che tra lunedì e martedì sera qualche sprovveduto spettatore televisivo si sia convinto, e da oggi avremo qualche naziskin in più, qualche neofascista in più che urlerà levando il braccio "Priebke libero!". Proprio questa apparente invincibilità del male ossessionava Primo Levi. Questo ha spezzato per sempre la sua ultima tregua.

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