Se Peter Pan affronta i movimenti

GRISPIGNI MARCO

Se Peter Pan affronta i movimenti

MARCO GRISPIGNI -

O GNI TANTO, ciclicamente, lo scoppio di una qualche polemica riconduce l'attenzione alle vicende dei movimenti sociali e politici degli anni '60 e '70. La polemica di Enzo Siciliano contro il '68, lo "scandalo" di Franco Piperno assessore alla cultura o la querelle Scalzone-Moretti (Nanni, s'intende) occupano per un breve periodo le pagine dei giornali, si bruciano rapidamente: in quei giorni ricompaiono i soliti "testimoni eccellenti" che ripetono la loro versione dei fatti. Chi osserva annoiato si chiede: è possibile che a 20-30 anni da quegli avvenimenti non si sia minimamente consolidata una interpretazione storico-politica capace di fare a meno del parere-testimonianza di Scalzone, Piperno, Ferrara, Liguori, Sofri?

La risposta dovrebbe (potrebbe) essere positiva. La storiografia, ormai da alcuni anni, sta cercando di misurarsi con l'intero arco delle vicende del cinquantennio repubblicano. A partire dal famoso ventennale del '68 non mancano saggi estremamente stimolanti sui movimenti; parallelamente la scienza politica ha prodotto riflessioni importanti proprio sulle vicende della "stagione dei movimenti". Una prima osservazione riguarda il differente (e per certi versi sorprendente) approccio di storici e scienziati politici. Contrariamente a quanto ci si sarebbe potuti aspettare, mentre gli scienziati politici (penso soprattutto a Tarrow e Della Porta) hanno considerato le vicende dei movimenti all'interno di un ciclo di vasto periodo (Tarrow usa la periodizzazione 1965-1975, la Della Porta addirittura quella 1960-1990), gli storici hanno quasi privilegiato l'evento 1968, contestualizzandolo nella fase storico politica nazionale (e in alcuni casi internazionale), ma scollegandolo dal prima e sopratutto dal dopo. Occorre interrogarsi sui motivi di questa scelta, in qualche modo antistorica, compiuta dagli storici. A volte la causa è nelle coordinate cronologiche generali delle opere dove viene inserito il saggio su il 1968 (credo sia il caso del bel lavoro di Revelli apparso sul III volume della Storia dell'Italia repubblicana dell'Einaudi); spesso però i motivi sono legati alla difficoltà a costruire uno schema concettuale di periodizzazione capace di inserire, con le categorie dell'interpretazione storiografica, le vicende dell'anno "mirabile" in un contesto più ampio. Un approccio che non manca invece agli scienziati politici che, come nel recente volume di Donatella Della Porta (Movimenti collettivi e sistema politico in Italia), con un'eccessiva facilità leggono come un fenomeno sostanzialmente unitario realtà profondamente differenti tra loro, ipotizzando periodizzazioni discutibili.

La questione delle fonti

Il problema è proprio la difficoltà a costruire storiograficamente schemi di interpretazione capaci di dare delle letture unitarie della stagione dei movimenti italiani. Spesso si dice che il problema per gli storici è quello della mancanza delle fonti: non è assolutamente vero. Da anni istituti, fondazioni, centri di documentazione hanno raccolto e reso disponibile agli studiosi un discreto patrimonio documentario sui movimenti: penso all'Istituto Gobetti di Torino, all'Istituto romano per la storia d'Italia dal fascismo alla resistenza, alla Fondazione Micheletti di Brescia, al De Martino, alla Fondazione Vera Nocentini di Torino, al Centro di documentazione di Pistoia, all'Archivio Marco Pezzi di Bologna e molti altri ancora che, pur con molti limiti e tra mille difficoltà, potrebbero aiutare i ricercatori a costruire queste ipotesi interpretative.

Questo non avviene: gli archivi sono consultati quasi esclusivamente da giovani laureandi e dottorandi. Nel frattempo continuano a uscire interventi su questi argomenti basati sulla memoria di chi scrive o sulle testimonianze di alcuni protagonisti, a loro volta basate esclusivamente sulla memoria di chi racconta. Parallelamente le iniziative di archivi e fondazioni che offrono a un pubblico più vasto gli strumenti per un'interpretazione più seria e articolata di quelle vicende non trovano l'attenzione dei media. Dirò di più: sono soprattutto i giornali di sinistra a disinteressarsi di queste iniziative.

Le due resistenze

Credo che le ragioni di questa disattenzione siano molto significative e a loro volta spieghino anche le difficoltà più generali degli storici: si tratta, a mio parere, di motivi nei quali si intrecciano in maniera difficilmente scindibile resistenze culturali e resistenze psicologiche. Un primo problema è quello di accettare lo scorrere del tempo e il proprio invecchiare. Provate a parlare di fonti storiche con qualcuno che ha vissuto quelle vicende da protagonista, vi risponderà che non è possibile fare storia di avvenimenti così vicini, che non è possibile che lui sia già un "testimone storico". Invece sono passati molti anni e, ciò che è importante per lo storico, si è definitivamente conclusa quella vicenda, quindi se ne può fare storia. Mi rendo conto che può essere difficile accettare di essere adulti, di non avere più vent'anni anche se ci si sente ancora giovani, spesso molto più giovani di quegli "assurdi" giovani d'oggi che sembrano nati vecchi con i loro miti di normalità, verginità e via dicendo. Eppure è così: banalmente il tempo passa. La sindrome di Peter Pan contro la storia.

L'analisi dei documenti

Il secondo problema è anche qui strettamente legato alle motivazioni soggettive: accettare un approccio storiografico, che prevede un ruolo fondamentale delle fonti cartacee, visive, orali, significa un radicale ridimensionamento del ruolo dei "testimoni privilegiati". La storia dei movimenti deve essere fatta non più partendo dalla classica affermazione "mi ricordo perfettamente", ma dalla ricostruzione dei fatti legata all'analisi dei documenti, le testimonianze, sicuramente di estrema importanza, devono essere severamente passate al vaglio della verifica documentale. Questo significa, ad esempio nel nostro caso, per molti giornalisti di sinistra non essere più la fonte unica per parlare di quegli avvenimenti, significa perdere una rilevanza e una centralità spesso vissute come affermazione di un dominio di campo. Dei movimenti non sono, non devono essere deputati a parlare solamente Scalzone o Fofi, ma al contrario saranno altri studiosi a utilizzare e verificare anche le loro testimonianze per costruire un reticolo interpretativo capace di rendere la complessità, la ricchezza e la miseria di quella vicenda.

Il discorso qui fatto "contro" i giornalisti di sinistra vale per molti versi anche per quei pochi storici che si sono misurati con la stagione dei movimenti. Non è un caso che, quasi sempre protagonisti nella loro gioventù di quelle vicende, mostrino notevoli resistenze a usufruire delle potenzialità legate all'offerta di fonti. Anche per loro, pur se con il mestiere e le categorie della storiografia, vale il discorso che parte dal "mi ricordo perfettamente"; questo limite impedisce di costruire periodizzazioni e interpretazioni complessive: chi si ricorda perfettamente il '68 non si ricorda il '73 o il '77 e viceversa.

Il ritardo della nostra storiografia sulle vicende del cinquantennio repubblicano deve essere rapidamente colmato: la storiografia deve contribuire a costruire un "sentire comune" su questa storia, deve smontare l'incredibile quantità di stupidaggini e deformazioni che l'uso "politico" della storia propone. In questo cinquantennio le vicende dei movimenti hanno svolto un ruolo importante (in alcuni casi fondamentale); troppo, per lasciarlo nelle mani di magistrati e giornalisti.

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