MUSICA Tamburi del Bronx chiusi in fabbrica

LORRAI MARCELLO

MUSICA Tamburi del Bronx chiusi in fabbrica

MARCELLO LORRAI - MILANO "Ah, la poesia delle bielle!", ironizzava nell'89 il quotidiano "Libération" illustrando una delle trovate escogitate da Jean-Paul Goude (l'ex compagno e art director di Grace Jones) per la sfilata del Bicentenario della grande rivoluzione: ispirato da "La Bete humaine" di Jean Renoir (a sua volta ispirato dal romanzo di Zola) un segmento ferroviario del corteo, con un convoglio di vagoncini con sopra Les Tambours du Bronx impegnati a percuotere i loro bidoni metallici vuoti, scandendo ovviamente il ritmo di una locomotiva.

Nel colorato e multiculturale corteo snodatosi sugli Champs-Elysées i Tamburi del Bronx, nati negli anni ottanta non già nel quartiere newyorkese ma a Nevers, erano chiamati a rappresentare degnamente la Francia, senza sfigurare nel temibile confronto con altre percussioni volute da Goude, quelle senegalesi di un maestro come Doudou N'Diaye Rose e i classici Tamburi del Burundi. Accostamento suggestivo con la tradizione di cooperazione percussiva africana: con la quale la somiglianza dell'approccio dei Tamburi del Bronx è però molto esteriore.

Più che ad un qualche neotribalismo imparentato con il continente nero, e con una associazione nel fare, musica o altro, non scissa da una complessiva espressione vitale, in effetti l'universo evocato dai Tambours du Bronx sul palco del Rolling Stone di Milano era piuttosto quello attraversato dagli stantuffi e dal vapore della locomotiva ottocentesca di Zola, un mondo di schiavitù salariata, di lavoro alla catena, di operai ridotti a pure protesi viventi della macchina. Per i Tambours du Bronx, non c'è da dubitarne, la percussione è un esercizio energetico e liberatorio, ma il fascino che finiscono per comunicare è quello - questo sì un po' primitivo a differenza dei sofisticati organici di percussione africani - del fracasso del maglio che si abbatte di prepotenza, del frastuono di un'industria metallurgica segnata dai ritmi implacabilmente regolari degli impianti.

Cosa ci manca nei Tambours du Bronx? Il rifiuto creativo di Charlin Chaplin, il sabotaggio beffardo di "Tempi Moderni". Senza il quale la loro pratica percussiva rimane chiusa nella dimensione claustrofobica della fabbrica.

E in alcuni momenti in cui la retorica dei diciotto percussionisti (un percussionista-massa) sconfina anche nel militaresco, nel gusto del muoversi inquadrati, magari al rullo di un tamburo, oltre all'affinità tra la disciplina della fabbrica capitalistica e quella di un esercito, viene in mente anche un'affermazione di Einstein che ricorda l'oscenità dei ritmi che mettono gli uomini al passo.

Il ritmo non è neutrale e i Tambours du Bronx non ne tengono forse abbastanza conto.

Da questo punto di vista il forte apprezzamento con cui la loro performance è stata seguita può far riflettere anche su certi nostri riflessi.

Successo pieno, con 1400 paganti, un'affluenza quasi clamorosa in una fase grama per i concerti a Milano, dovuta anche al consenso ormai consolidato di cui gode la rassegna Suoni e Visioni, la cui nuova edizione i Tambours du Bronx hanno avuto il compito di inaugurare.

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