Il mosaico variegato della nostra letteratura di fine millennio non si lascia racchiudere in un'estetica, non riesce a comporsi in una concezione organica della letteratura.
Da una parte la critica rivendica il valore conoscitivo dell'opera, insiste sul valore del romanzo come strumento di comprensione, sulla sua capacità di trasfigurare e donare senso alla realtà (Colasanti, Trevi). Dall'altra, fra i "giovani scrittori" trionfano le motivazioni più disparate. C'è il bisogno di un "gesto conoscitivo" che non ha confini, ed esplora varie forme di scrittura, ricerca uno stile che sia soprattutto sguardo, "colore di visione" (Affinati, "Bandiera bianca"). C'è l'esigenza nostalgica di tornare indietro nel passato, dare corpo alle proprie ossessioni storiche e vivere proustianamente un'esperienza perduta, costruendo un romanzo che sia una "macchina del tempo" (Alessando Barbero "Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo"). E ci sono anche quelle più "basse" e venari, travestite dal candore di un Niccolò Ammaniti ("Fango") che intende alimentare una fin troppo facile "poetica della sfiga" e confessa candidamente di avere cominciato a scrivere perché non riusciva più a dare esami all'università e voleva guadagnare qualche soldo.
E' così che il romanzo si rivela un "struttura a rischio": da strumento conoscitivo rischia di degenerare in pura forma di intrattenimento, scaturita non più da una "necessità interiore", ma dalla sottomissione alle leggi del mercato editoriale. Così, nel consumo delle storie, chi legge non cerca conferma della propria identità tramite idee estetiche, ma attraverso facili meccanismi di identificazione che fanno la sua felicità. Perciò, davanti ad un testo, la critica letteraria dovrebbe chiedersi innanzitutto "quale campo di desideri e bisogni si mette in moto" (Trevi).
Questa eccessiva frammentazione, questo nomadismo estremo è ciò che fa la specificità e la "fortuna" della narrativa italiana, ma anche ciò che le impedisce di agganciarsi saldamente alla narrativa mondiale.