G LI EVENTI COMPRESI tra il 1989 e il 1991 hanno rappresentato nell'immaginario collettivo occidentale la fine del comunismo. Il libro di Bruno Buongiovanni La caduta dei comunismi (Garzanti, pp. 275, L. . 35.000) sottolinea non solo l'importanza di questo arco storico, ma giunge a sostenere che esso ha rimesso "la storia in movimento". Se questa affermazione è vera, dobbiamo supporre di avere assistito ad una sorta di blocco della storia, rispetto al quale la fine del socialismo reale costituirebbe una rimessa in movimento. Con ciò non si vuole affermare che siamo in presenza di svolte epocali. Tutt'altro. I problemi del XX secolo, aperti con il 1914, non si chiudono affatto con il 1991, ma sembrano piuttosto riaprirsi. In gioco c'è una ridefinizione del 1917 a partire da una rielaborazione della tesi cara alla storiografia revisionista per cui il bolscevismo segnerebbe l'inizio della "guerra civile europea".
La nota tesi di Nolte per cui il fascismo sarebbe stato originato dal terrore del bolscevismo viene non solo ridimensionata, ma più esattamente ribaltata: il diffondersi del "comunismo" nel dopoguerra fu infatti la conseguenza diretta della guerra fascista e dell'occupazione nazista. Se quindi tanto il bolscevismo quanto i fascismi sorgono dalla svolta del 1914, è a partire dalle lotte contro il fascismo che la percezione del "comunismo" ne esce rivitalizzata.
Bongiovanni scrive che "la storia del 'comunismo' è inscindibile dalla storia della sua percezione". Secondo l'autore è necessario distinguere tra comunismo come idea rivoluzionaria e "comunismo" (tra virgolette) dei paesi che si proclamarono tali e che come tali vennero riconosciuti. Il "comunismo", denunciato fin dagli anni venti come menzogna da una minoranza, poteva continuare ad esistere solo attraverso il riconoscimento di qualcuno che dall'esterno lo affermasse. Operava così una particolare dialettica in cui il "comunismo", negato nella realtà in quanto sistema basato sulla produzione di merci e sul lavoro salariato - categorie cardine dell'analisi marxiana del capitale - esisteva realmente in quanto riconosciuto come tale. Quando, nella seconda metà degli anni settanta, si è smesso di ricordare il comunismo nel "comunismo", esso si rivelò come un caotico sistema totalitario, e i tentativi di riformarlo in direzione di uno "stato di diritto socialista" accelerarono nei fatti la dissoluzione di un sistema tenuto assieme dal potere centrale.
Dopo la pace spartitoria del 1945-'91, giustificata dalla "necessità di ingabbiare appunto il disordine dei nazionalismi", i problemi inaugurati dalla guerra scoppiata nel 1914, scatenata dagli appetiti imperialistici e alimentata dalla risoluzione degli imperi, ridivengono attuali. I nazionalismi, sorti dalla dissoluzione del tessuto sociale tradizionale, riesplodono come tentativi di articolare una forma d'identità particolare contro il moderno universalismo. Bongiovanni sottolinea che il nazionalismo è "stato una forma di modernizzazione che ha saputo contraddittoriamente e drammaticamente inglobare, sino a negarsi nei casi estremi, la stessa resistenza delle masse alla modernizzazione". Andrebbe qui precisato che le forme di questa resistenza si determinano nella ricerca di identità contrapposte all'universalismo del moderno, definendosi così negativamente come nazioni particolari di fronte ad un universale. Non solo il nazionalismo dunque, ma la stessa ricerca di una resistenza al moderno fondata sull'identità, porta ineluttabilmente ad una ricaduta nel cerchio magico di quel cattivo universale che pur si vorrebbe contrastare.
Il disfacimento del socialismo reale rappresenta il crollo di un principio universalistico che funzionava da principio d'identità capace di tenere assieme, anche con la forza, spinte sociali diverse. A questa forma di universale era solo apparentemente contrapposto l'universalismo occidentale, l'identità astratta delle merci e del mercato mondiale. Attraverso un'immane accumulazione capitalistica, "corso accelerato di rude pedagogia industriale" valido non solo per la popolazione contadina russa ma anche per i capitalisti occidentali nella cui classe Stalin dovrebbe essere inserito a pieno titolo, la Russia lavorava alla propria ascesa nel mercato mondiale delle merci.
La forma dell'universale poteva abbandonare la crisalide del totalitarismo sovietico e divenire farfalla capitalistica, imperio del lavoro astratto e della merce. Il razionamento quantitativo che regolava l'afflusso delle merci in un mercato amministrato lascia il posto ad un mercato mondializzato. Non a caso un dissidente anticomunista come Solzenicyn definisce negativamente la politica gorbacioviana in quanto responsabile di quello snaturamento della Russia che l'ha resa facile preda della colonizzazione occidentale.
Dalla disamina storica di Bongiovanni appare che, con la dissoluzione dell'immenso impero russo, si è riaperta l'epoca dei nazionalismi inaugurata nel 1914 con la guerra dei trent'anni del XX secolo. Il risorgere caparbio dei nazionalismi non sta tanto a significare che "malgrado l'affermazione dell'economia-mondo" la missione livellatrice del capitalismo non si sia ancora compiuta, bensì che il nazionalismo si presenta come aspetto intimamente intrecciato con quell'universalismo.