A MOLTE RIFLESSIONI induce - oltre il piacere della lettura - la bella antologia di poesia cinese contemporanea appena uscita per Einaudi, a cura di Claudia Pozzana e Alessandro Russo. Il volume comprende versi di diciotto poeti e poetesse delle ultime due generazioni - i nati fra il 1949 e il 1969 - presentati nel testo originale con a fronte la traduzione italiana, ed è corredato dalle risposte di ciascun autore a un questionario e da ampie notizie biografiche. I due curatori svolgono da anni un lavoro da pionieri nella presentazione in Italia dei nuovi poeti: prima quelli della generazione relativamente più anziana, denigrati come incomprensibili dalle burocrazie della cultura, poi via via i più giovani (una raccolta di versi comparve col titolo Poeti cinesi contemporanei sulla rivista "In forma di parole", IX, 3, 1988).
Alcuni di questi autori sono oggi largamente noti anche all'estero e sono stati tradotti in lingue europee - come Bei Dao, Mang Ke, Yang Lian - altri sono poco conosciuti anche in Cina - come Shu Cai. Sono rilevanti, anche all'interno dei due gruppi dei più e meno giovani, le differenze (specialmente nella sfera delle forme e dello stile), come pure alcuni tratti comuni (di ordine soprattutto socio-psicologico).
Del difficile rapporto fra presente e passato in Cina la poesia offre la testimonianza estrema, forse proprio per essere la forma letteraria più peculiare all'indole e alla tradizione di quel popolo e quella cultura. Il passaggio, iniziato quanto meno ai primi del secolo, dalla scrittura in lingua letteraria a quella in lingua cosiddetta parlata ha posto ai narratori problemi inerenti soprattutto al programma di "popolarizzazione", e al rapporto fra tradizione cinese e influenze occidentali nella struttura delle opere e nella sintassi.
L'immensa produzione saggistica (filosofica, letteraria, giornalistica, politica) è quella dove i diversi autori si sono più distinti gli uni dagli altri cercando soluzioni individuali e manifestando maggiore libertà e ricchezza nella ricerca, contaminando in modi vari lingua letteraria e lingua parlata, forme nobili e volgari, modi aforistici alla cinese e argomentazione all'europea. Di altro ordine, e più grave, era il problema per la poesia - considerata da sempre la forma superiore di scrittura e praticamente impensabile se non in caratteri Han e in lingua letteraria. Chiunque (pur ignorando il cinese) abbia avuto occasione di leggere traduzioni "di servizio" di versi cinesi con testo a fronte, si è certo reso conto di come la sintesi che si opera in quella lingua letteraria e la concreta materialità, spesso polisensa, dei caratteri di scrittura sia la premessa eccellente e necessaria della poesia; e di come la poesia, per converso, sia la realizzazione eccellente delle potenzialità della lingua. Anche a questo si deve la bellezza assoluta della poesia lirica cinese - specie delle epoche Tang e Song - e la sua intraducibilità (se non per complesse mediazioni e allusioni). A partire grossomodo dagli anni Venti, gli scrittori professionisti hanno deciso di scrivere versi in lingua parlata. Le difficoltà erano tali, che ne sono risultati settant'anni di sperimentazione, ancora oggi lontana dall'essere conclusa. Credo che i motivi di quella scelta siano stati principalmente due (fra loro intrecciati): il proposito della modernizzazione-occidentalizzazione e lo spirito di rivolta. Credo pure che questi motivi siano durati e durino fino ai nostri giorni, al di là delle numerose svolte politiche e culturali e delle trasformazioni della società nei settant'anni trascorsi. I modelli per la modernizzazione, nella sperimentazione poetica, includono quasi tutte le diverse correnti di questo secolo nella composizione di versi nelle lingue europee, con riferimenti espliciti all'uno e all'altro autore, e spesso con una certa confusione nel dar nome alle correnti o nell'accostamento degli autori. Lo spirito di rivolta è indirizzato contro la vecchia società e contro i detentori del potere, che erano tutt'uno negli anni Dieci, e - agli occhi dei giovani più radicali - ancora largamente negli anni Venti. Dopo il lungo periodo di guerra, e con la direzione dell'intero paese da parte dei comunisti, l'identificazione conservazione-potere cessa; riprenderà poi con la rivoluzione culturale, con il ripudio della stessa e soprattutto
dei suoi dirigenti, e infine col ripudio del presente dispotismo-più-mercato. Ma in ogni periodo lo spirito di rivolta contro il potere è la dominante fra la gioventù colta e anima pure l'espressione poetica, che tanto spesso prende la forma del lamento, e più, del grido.
Rispetto alla permanenza del lamento e del grido, appare secondario contro chi, di volta in volta, essi siano indirizzati. Anche i nuovi poeti continuano questa tradizione e assomigliano più di quanto non credano ai propri nonni del 4 maggio e ai fratelli maggiori (o a se stessi) della rivoluzione culturale. La continuità col 4 maggio si manifesta anche nella rivendicazione dei diritti dell'individuo contro la repressione sociale e politica, che era nata come rivolta contro la vecchia società. Se vogliamo, la continuità è con una ben più lunga tradizione, nell'antitesi fra potere-socialità-ordine da un lato e individualismo-asocialità-disordine dall'altro. Va evitata la troppo facile riduzione del primo aspetto al confucianesimo e al mandarinato, e il secondo all'anarchismo e al taoismo. Si tratta infatti di un'antitesi interna all'élite dirigente colta (a volte interiore a uno stesso individuo - l'ultimo grande esempio è quello di Mao Zedong), che solo in alcuni periodi si intreccia con una contraddizione più vasta e radicale, quella fra la classe dirigente di cultura "superiore", nel suo insieme, e la massa del popolo con una sua cultura sotterranea e resistente.
Bersaglio della rivolta fra i colti è pure il dispotismo delle forme. Per la poesia, nel nostro secolo, il dispotismo della lingua letteraria e della metrica codificata. (Uno dei giovani poeti qui tradotti arriva a percepire come vincolo alla libertà perfino i caratteri della scrittura). Nell'introduzione al volume, così ricca di spunti di riflessione che non è possibile in un breve spazio neppure riassumerli, Pozzana e Russo sembrano, per questo aspetto della rivolta, almeno in parte solidali con gli autori tradotti.
Ma se lingua letteraria e metrica codificata appartengono definitivamente al passato, non ha più senso oggi attribuire ad esse una funzione dispotica. Se è vero che "l'immensa ricchezza della poesia cinese antica non va confusa con le ambigue onorificenze assegnatele dalla cultura confuciana" (Russo-Pozzana) e che la poesia classica è come una "danza con le catene" (Mo Mo), è anche vero che i poeti condividevano quella cultura confuciana (anche i più taoisti, come Li Po) e appartenevano alla sfera del mandarinato (anche i più ribelli). E, d'altra parte, ogni poesia che meriti questo nome è una danza con le catene. La fine della sperimentazione (e anche del troppo lamento e del troppo grido) si avrà in Cina quando i poeti avranno saputo dare a sé, in libertà, nuove catene. Sull'esempio dei poeti Tang, che definirono le regole metriche più rigide e dettero al mondo la poesia lirica più alta.