S ULLA DRAMMATICA situazione a Timor est abbiamo voluto rivolgere alcune domande al Vescovo di Dili, Carlos Ximene Belo, protagonista di molte battaglie civili della poolazione timorese e che, fra l'altro, è stato recentemente candidato al Nobel per la pace.
Come è mutata la situazione di Timor Est a vent'anni esatti dall'invasione indonesiana nell'isola?
Siamo colonizzati sotto ogni aspetto. In tutte le forme della realtà. Le case assumono sempre più l'architettura giavanese; i ragazzi cantano e danzano usando termini, toni, gesti giavanesi. E più il tempo passa, più la situazione peggiora. Occorre, a questo punto, chiedersi cosa significhi mantenere l'identità culturale, storica e religiosa di un popolo
Sulla questione politica timorese si fronteggiano il governo indonesiano che auspica l'annessione della regione, e le organizzazioni internazionali, favorevoli ad un referendum popolare sul futuro di Timor Est. L'Onu anche in questi giorni chide a Giakarta di ritirare le sue truppe. Come si pone la Chiesa locale tra questi due estremi?
Ci si deve domandare quale Chiesa. La Chiesa del popolo è divisa nel suo interno. Anche coloro che lottano per l'integrazione all'Indonesia sono membri della Chiesa. Ma la Chiesa ufficiale, il Vescovo, è neutrale; noi continuiamo a ripetere da vent'anni che è il popolo di Timor Est, solo il popolo che deve decidere il proprio futuro, e questa possibilità non gli è mai stata data.
Ma nella vostra neutralità, Giakarta vi accusa di appoggiare il movimento indipendentista.
Certamente! Dal 1975 ad oggi siamo stati sempre accusati dal governo indonesiano di essere Chiesa comunista, Chiesa "rossa", Chiesa che appoggia l'anti-integrazione, che altro non è che un modello di oppressione ed emarginazione. Ma, d'altra parte, siamo accusati dai timoresi stessi di esserci venduti agli indonesiani perché non parliamo apertamente dell'indipendenza.
La cospicua presenza militare nell'isola, è veramente giustificata con il pericolo di un'insurrezione armata da parte del Fretilin?
Questo lo affermano i militari, che a Timor Est hanno enormi interessi economici. La guerriglia esiste tuttora, ma è dal 1983 che le stime ufficiali indicano in 200 il numero dei combattenti: sembra che non muoiano, non spariscano... sempre 200. Ma, anche se fossero davvero 200, questo non giustifica la presenza di 16 Battaglioni ed un numero sconosciuto di agenti segreti. Penso piuttosto che la presenza militare sia dovuta anche alla paura che hanno del popolo timorese. Questa è la cosa di cui hanno veramente paura.
La mentalità e l'identità dei giovani nati dopo il 1975 è differente da quella delle precedenti generazioni?
Assolutamente no! Anche loro non accettano l'assoggettamento all'Indonesia.
A Dili abbiamo visto un gran numero di uffici pubblici. Chi ci lavora e chi ha i posti dirigenziali?
I capi son tutti indonesiani. I timoresi che vogliono concorrere ai pochi posti a loro disponibili sono obbligati a sostenere test-interrogatori sul loro passato politico, sulla loro eventuale partecipazione alla manifestazione del cimitero di Santa Cruz e il loro rapporto col Fretilin.
Qual è, quindi, la via d'uscita per una soluzione pacifica a Timor Est, se c'è una soluzione pacifica?
Una reazione internazionale! Se non si leva una protesta - ed in questo senso la Chiesa ufficiale ha una certa colpa perché tace - diventeremo indonesiani sotto ogni aspetto. Voi venite dall'Italia: che ha fatto l'Italia per Timor Est? E' vero, i timoresi sono solo 700 mila persone, ma questo piccolo popolo desidera preservare la propria identità culturale, religiosa e storica e che gli vengano garantiti i diritti umani ed il diritto all'autodeterminazione. Chiede troppo?