Gli Usa hanno la memoria corta

CRISTIANO RICCARDO

Gli Usa hanno la memoria corta

Riccardo Cristiano

P ER QUANTO ABBIA un abbondante quarantasei e quel giorno calzasse comode e robuste Chruch, all'allora segretario di stato americano, James Baker III, formicolavano i piedi. Aveva appena concluso una maratona in poltrona; nove ore seduto nel salotto di Damasco ad ascoltare il

presidente siriano ricostruire la storia del Medioriente dai tempi dei crociati ad oggi. Per portare al tavolo negoziale israeliani e arabi si fa questo ed altro, ma James Baker pensò che quel metodo andava modificato; la diplomazia bizantina usa l'eterno storico per costruire e ricostruire le proprie ragioni. Meglio dargli un taglio.

Fu forse così che nacque nella mente del braccio destro di Bush l'idea folgorante del processo di pace. La geniale intuizione diplomatica di Baker appare un genere diplomatico non più limitato al conflitto arabo-israeliano, ma applicabili a molti conflitti complessi. Vale dunque la pena di leggere tra le righe della storia recente cosa sia il "processo di pace", immaginandone una formula che in realtà non è scritta. Ma che differenzia chiaramente il processo di pace dalla pace.

Prima di Baker

Ante Baker datum infatti i conflitti venivano risolti con trattati di pace che fissavano confini, stati, capitali e così via. Con Baker invece la pace è divenuta una lenta costruzione che comporta l'immediata cessazione delle ostilità (con strascichi terroristici, ovviamente) il rinvio nel tempo dei nodi di più difficile soluzione e la costruzione nel frattempo di quel tessuto diplomatico che renda possibile la coesistenza tra ex-belligeranti. Non è forse questo la formula che si sta sperimentando anche nel caso delle guerra bosniaca? Si obbietterà, forse, che anche Holbrooke, il Baker dei Balcani, è stato costretto a trascorrere nove ore con Milosevic. Ma pochi credono che il presidente belgradese abbia speso quel tempo per spiegare al ruvido inviato della Casa bianca la mitologia serba. Se ne può quindi desumere che Holbrooke abbia goduto della formula inventata dal suo illustre predecessore migliorata appunto dalla sostanziale successiva conquista: l'archiviazione delle dispute millenarie, la fissazione di un ragionevole punto di partenza. Nel caso israelo-palestinese, ad esempio, Baker fissò questa data nel giorno di nascita dello stato di Israele: più indietro di lì non si va. 50 anni per il Medioriente sono pochissimi, per gli americani un'eternità. Baker, che aveva vista lunga e mano forte, seppe tenere 50 anni a mente. I nuovi signori del Dipartimento di stato hanno preferito tempi più brevi.

Gli americani, si sa, sono sbrigativi. Ma fissare come data di partenza incontestabile e ultima quella del riconoscimento della Bosnia, cioè tre anni fa, dà l'impressione di una celerità eccessiva anche per loro. Non è bizantinismo scoprire la centralità delle date. Il conflitto jugoslavo, infatti, è divenuto inevitabile e ingovernabile proprio per via del riconoscimento privo di sostegno giuridico dell'indipendenza di Croazia e Bosnia. Una volta accordato quel diritto alla secessione come negare analogo diritto ai serbi di Bosnia? Ecco la pulizia etnica. Ogni etnia, per evitare ulteriori secessioni interne, ha scacciato le minoranze; pena il rischio di secessioni a catena e la nascita di stati-matrioska difficilmente gestibili.

Anche il conflitto palestinese è divenuto ingovernabile nel '48, quando la nascita dello stato ebraico non è stata regolata in modo tale da consentire la parallela nascita dello stato palestinese. La diplomazia americana interviene dunque sul nodo decisivo fingendosi sbrigativa perché non ama la storia: "prendiamo per buono il bandolo più recente e mettiamola con le rivendicazioni che vanno troppo lontano". Il tempo rende irreversibili le realtà e quindi l'approccio americano prima o poi diventa inevitabile, stringere. La storia e le recriminazioni che la storia comporta renderebbero necessarie discussioni interminabili; alla diplomazia Usa piace invece il "fast-food diplomatico".

"Egregio signor Goethe"

A Belgrado ho conosciuto un "intellettuale dell'opposizione democratica al regime Milosevic" che sostiene: questo conflitto lo potevano risolvere solo gli americani, che di noi e della storia non sanno nulla. Pensa, mi ha detto, Bob Dole, prima di intraprendere un recente viaggio europeo, ha scritto una lettera al Goethe Institute così concepita: "Egregio signor Goethe, avvicinandosi un mio viaggio europeo avrei piacere, insieme a mia moglie, di incontrarla. E di offrirle nell'occasione la tessera di socio del nostro club dei letterati repubblicani". Gli hanno risposto: "Egregio signor Dole, sono spiacente ma non avrò il piacere di incontrare né lei né la sua signora, né di accettare la tessera di socio del club dei letterati repubblicani. Suo, Johann Wolfang Goethe, 1749-1832". Questo racconto mi ha fatto capire che anche nei "Balcani" (perché poi continuare a chiamarli così, pur sapendo tutti che ha sapore dispregiativo e un senso geo-politico discutibile?) si guarda con occhi superbi agli americani.

Ma ciò non dovrebbe farci perdere di vista anche l'ultimo capitolo, cosciente o incosciente, delle regole non scritte del processo di pace. La ricetta sembra essere questa; si prenda la parte in conflitto più vicina, più omogenea culturalmente, storicamente e ideologicamente all'occidente, la si difenda dai sopraffattori arabi e/o comunisti (anche Tudjman era comunista, ma nessuno lo dice; e quanto ai padri fondatori di Israele poi c'erano anche trotzkisti, ma perché ricordarlo?); si costruisca quindi uno schema buoni/cattivi esaltando quelle parti in cui ciò corrisponde a verità e nascondendo o occultando quelle in cui ciò non corrisponde assolutamente a verità; si appoggi la parte prescelta fino a renderla la più forte; si avvii poi il processo di pace, che si concluderà quando la resistenza al modello occidentale proprio di quel popolo sarà piegato. Cioè quando l'altro non sarà più "altro".

Forse c'è un vizio dietrologico in questa interpretazione dei canoni fondanti il processo di pace. Ma purtroppo i cultori del diritto internazionale e del rispetto del senso storico del diritto dei popoli non appaiono determinati a seguire la loro strada. E così anche in politica internazionale molta parte della sinistra finisce per schierarsi sulla base del paradigma che ciò che fanno gli Usa e la Nato è errato, e non sulla base che ciò che rispetta il diritto internazionale e dei popoli è giusto.

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