P ER QUANTO ABBIA un abbondante quarantasei e quel giorno calzasse comode e robuste Chruch, all'allora segretario di stato americano, James Baker III, formicolavano i piedi. Aveva appena concluso una maratona in poltrona; nove ore seduto nel salotto di Damasco ad ascoltare il
Fu forse così che nacque nella mente del braccio destro di Bush
l'idea folgorante del processo di pace. La geniale intuizione
diplomatica di Baker appare un genere diplomatico non più
limitato al conflitto arabo-israeliano, ma applicabili a molti
conflitti complessi. Vale dunque la pena di leggere tra le righe
della storia recente cosa sia il "processo di pace",
immaginandone una formula che in realtà non è scritta. Ma che
differenzia chiaramente il processo di pace dalla pace.
Gli americani, si sa, sono sbrigativi. Ma fissare come data di
partenza incontestabile e ultima quella del riconoscimento della
Bosnia, cioè tre anni fa, dà l'impressione di una celerità
eccessiva anche per loro. Non è bizantinismo scoprire la
centralità delle date. Il conflitto jugoslavo, infatti, è
divenuto inevitabile e ingovernabile proprio per via del
riconoscimento privo di sostegno giuridico dell'indipendenza di
Croazia e Bosnia. Una volta accordato quel diritto alla
secessione come negare analogo diritto ai serbi di Bosnia? Ecco
la pulizia etnica. Ogni etnia, per evitare ulteriori secessioni
interne, ha scacciato le minoranze; pena il rischio di secessioni
a catena e la nascita di stati-matrioska difficilmente
gestibili.
Anche il conflitto palestinese è divenuto ingovernabile nel '48,
quando la nascita dello stato ebraico non è stata regolata in
modo tale da consentire la parallela nascita dello stato
palestinese. La diplomazia americana interviene dunque sul nodo
decisivo fingendosi sbrigativa perché non ama la storia:
"prendiamo per buono il bandolo più recente e mettiamola con le
rivendicazioni che vanno troppo lontano". Il tempo rende
irreversibili le realtà e quindi l'approccio americano prima o
poi diventa inevitabile, stringere. La storia e le recriminazioni
che la storia comporta renderebbero necessarie discussioni
interminabili; alla diplomazia Usa piace invece il "fast-food
diplomatico".
Ma ciò non dovrebbe farci perdere di vista anche l'ultimo
capitolo, cosciente o incosciente, delle regole non scritte del
processo di pace. La ricetta sembra essere questa; si prenda la
parte in conflitto più vicina, più omogenea culturalmente,
storicamente e ideologicamente all'occidente, la si difenda dai
sopraffattori arabi e/o comunisti (anche Tudjman era comunista,
ma nessuno lo dice; e quanto ai padri fondatori di Israele poi
c'erano anche trotzkisti, ma perché ricordarlo?); si costruisca
quindi uno schema buoni/cattivi esaltando quelle parti in cui ciò
corrisponde a verità e nascondendo o occultando quelle in cui ciò
non corrisponde assolutamente a verità; si appoggi la parte
prescelta fino a renderla la più forte; si avvii poi il processo
di pace, che si concluderà quando la resistenza al modello
occidentale proprio di quel popolo sarà piegato. Cioè quando
l'altro non sarà più "altro".
Forse c'è un vizio dietrologico in questa interpretazione dei
canoni fondanti il processo di pace. Ma purtroppo i cultori del
diritto internazionale e del rispetto del senso storico del
diritto dei popoli non appaiono determinati a seguire la loro
strada. E così anche in politica internazionale molta parte della
sinistra finisce per schierarsi sulla base del paradigma che ciò
che fanno gli Usa e la Nato è errato, e non sulla base che ciò
che rispetta il diritto internazionale e dei popoli è giusto.
Prima
di Baker
"Egregio signor Goethe"