Mine, l'eredità di guerra

DENTICO NICOLETTA

Mine, l'eredità di guerra

NICOLETTA DENTICO

S TAVA tornando a casa da un matrimonio, Vang, quando una mina antipersona gli ha disintegrato una gamba e distrutto la vita, il 16 maggio scorso. Un suo coetaneo, monaco buddista di Kompong Speu, conosce invece a memoria le regole di sopravvivenza: mai attraversare una campo aperto, camminare solo sui sentieri segnati, mai toccare oggetti che spuntano dal terreno... Siamo in Cambogia, dove secondo la Croce rossa americana 9mila persone entro la fine del '95 saranno divenute vittima di questi ordigni a effetto ritardato.

A una manciata di chilometri da Kompong Speu, nella capitale Phnom Penh, una conferenza internazionale ("L'impatto umano e socio-economico delle mine: verso il bando internazionale") ha riunito nei giorni scorsi 400 rappresentanti di 35 paesi, approdati qui per vedere cosa significhi convivere con le mine. E' la prima volta che la discussione sulla messa al bando di queste armi abbandona la scena "pulita" dei paesi produttori.

Le mine rappresentano una flagrante violazione del diritto umanitario internazionale e anche "se non fossero usate in maniera indiscriminata - commenta Jody Williams, coordinatrice della campagna internazionale per la loro messa al bando - violerebbero per loro stessa natura il principio della proporzionalità". D'altra parte, "Chi ha detto che le mine sono economiche?", chiede Steve Goose di Human rights watch. "I costi umanitari eccedono infatti di gran lunga la loro utilità militare".

Le stime dell'Onu del resto sono eloquenti: il costo medio per la riabilitazione di una vittima si aggira intorno ai 5mila dollari. Per i 35mila disabili cambogiani ciò significa 105 milioni di dollari in servizi chirurgici e fisioterapia (oltre alla riabilitazione psico-sociale). I costi raddoppiano in Angola mentre in Afghanistan il costo annuo è di 20 milioni di dollari per la riabilitazione delle 4mila vittime sopravvissute alle esplosioni. Per non parlare "della perdita di produttività di interi villaggi che, ad esempio, hanno perso le loro mandrie di bestiame" sottolinea Sayed Aqa, direttore della Mine clearence planning agency di Islamabad, che sottolinea l'impatto di questi ordigni sull'ambiente.

Lo sminamento? Occorrono 300-1.000 dollari per ogni mina e se ne contano 110 milioni ancora inesplose in almeno 64 paesi. Un calcolo minimo di quanto costerebbe sminare il mondo si aggira sui 33 miliardi di dollari. Secondo il rapporto del segretario dell'Onu Boutros Ghali, nel '93 sono state rimosse 80-100mila mine al costo di 70 milioni di dollari. Ma nello stesso periodo ne sono state disseminate circa due milioni!

Da Phnom Penh è partita la denuncia anche verso produttori ed esportatori. La Cina in primo luogo, leader mondiale e paese d'origine di molte delle mine sparse in Cambogia, vendute ai Khmer rossi a prezzi stacciati (le mine in plastica 72A e 72B, antipersona, hanno un prezzo di mercato di 3 dollari!). E potenza recalcitrante a ogni istanza della campagna internazionale per la messa al bando di questi ordigni. Poi il Pakistan, che negli ultimi anni da importatore di mine ne è diventato uno dei maggiori produttori ed esportatori asiatici. Infine Singapore, crocevia dei traffici internazionali di armi. Qui, la Valsella Meccanotecnica italiana produce su licenza la famigerata Valmara 69 (considerata la più pericolosa mina antipersona in circolazione) e la VS 50. Secondo fonti di intelligence francesi, le mine italiane di Singapore avrebbero lastricato vaste aree dell'Asia, inclusa quella cambogiana.

La risposta a questo "disastro umanitario" è la messa al bando totale e universale delle mine. La Conferenza di Phnom Penh si è pronunciata con grande forza su questa richiesta, appoggiata incondizionatamente dal re Norodom Sihanouk, che ha voluto incontrare una delegazione di partecipanti all'incontro internazionale.

Il comunicato finale della Conferenza invita pertanto le nazioni che parteciperanno alla prossima Conferenza di revisione della Convenzione dell'Onu contro le armi indiscriminate (il Protocollo II riguarda le mine terrestri) a sostenere la proibizione totale di queste armi.

Ciò che stenderebbe automaticamente la sua applicazione a tutti i conflitti e ne garantirebbe la periodica e costante revisione.

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