CINA-USA Clinton apre a Taiwan. Pechino si infuria

PASCUCCI ANGELA

CINA-USA Clinton apre a Taiwan. Pechino si infuria

A. PA.

N EL GIRO DI UNA settimana, il presidente americano Bill Clinton è arrivato ai ferri corti con le due maggiori potenze dell'area asiatica: prima le sanzioni sulle auto giapponesi, l'altro ieri la concessione del visto di entrata negli Usa (per una visita privata come ex allievo della Cornell University) al presidente di Taiwan, Lee Teng-hui. Decisione che ha fatto andare in bestia la leadership di Pechino, già in grave difficoltà per una transizione che, tra scandali e difficoltà economiche, si preannuncia più torbida del previsto. E tutto mentre si approssima il sesto anniversario di Tian Anmen, una data che sempre innervosisce Pechino, tanto da spingerla ogni anno a una brutale repressione contro i dissidenti.

In una dichiarazione all'agenzia Nuova Cina il portavoce del ministero degli esteri cinese, esprimendo la profonda indignazione del suo governo, ha accusato ieri Washington di volere la divisione del paese perché, dando legittimità con il suo atto a Lee, favorisce anche il riconoscimento di "due Cine". Di fatto, con la sua decisione Clinton cambia una politica che data dal 1979, quando gli Usa, fino a quel momento schierati coi nazionalisti fuggiti dal continente nel 1949, decisero di riconoscere la Repubblica popolare come unico rappresentante della Cina.

L'apertura a Lee Teng-hui appare come uno schiaffo in piena faccia al presidente e segretario del Pc cinese Jiang Zemin che, impegnato in una lotta furibonda per la successione a Deng, qualche mese fa aveva esposto un piano di unificazione con Taiwan, annunciandolo come punto centrale del suo programma politico.

Ben diversamente la pensa il governo di Taipei, che aspira invece al riconoscimento della sua indipendenza e si è ormai avviato da qualche anno sulla strada delle riforme politiche: qualche mese fa i taiwanesi hanno scelto con libere elezioni il governatore dell'isola e i sindaci delle maggiori città. L'anno prossimo eleggeranno per la prima volta liberamente il capo dello stato. Un confronto bruciante per Pechino che peraltro, al di là del non riconoscimento ufficiale dello stato nazionalista, è consapevole dei crescenti ed enormi legami economici che le riforme hanno intrecciato tra l'isola e l'area costiera che la fronteggia.In queste circostanze la posta in gioco per l'establishment cinese non è tanto la riunificazione (assai improbabile, per ora) tra le due entità, ma la disgregazione dello stesso territorio della Cina popolare, che il nuovo sviluppo economico, con la differenziazione spinta delle aree regionali, sta inducendo.

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