50 mila inutili caschi blu

ARCHIBUGI DANIELE

50 mila inutili caschi blu

Quattro punti per evitare che le missioni "peace keeping" continuino a risolversi in inevitabili fallimenti
DANIELE ARCHIBUGI MARY KALDOR - ROMA

N EL MOMENTO in cui si celebrano i primi cinquant'anni di vita delle Nazioni unite, ci sono nel mondo più di 50 mila caschi blu sul campo. Si tratta di una cifra ingente, soprattutto se confrontata con le sole 11 mila unità esistenti agli inizi del 1992. Per l'Onu, si tratta di un costo finanziario assai elevato: i caschi blu costano da soli quanto tutte le altre azioni dell'organizzazione.

Come mai gli anni Novanta hanno posto sulle spalle dell'Onu un impegno così consistente? L'opinione pubblica ha iniziato a trovare inaccettabile che venissero compiuti atti di genocidio sotto gli occhi - spesso quelli delle telecamere - del mondo senza fare alcunché. In casi come la Somalia, l'ex Jugoslavia, il Ruanda, i cittadini del mondo si sono rifiutati accettare l'ipocrita nozione di "conflitti interni" e hanno richiesto che, se davvero la caduta del muro di Berlino aveva portato un nuovo ordine, la comunità internazionale doveva agire per impedire nuovi atti di genocidio.

Eppure le operazioni svolte sotto la bandiera delle Nazioni unite, anche se inizialmente salutate con fervore, non sono state coronate da successo. In Somalia, l'Onu ha raggiunto soltanto uno dei suoi obiettivi, quello dell'emergenza alimentare, mentre non è riuscita a ripristinare la riconciliazione tra le parti e neppure a disarmare le fazioni rivali. L'intervento in Ruanda è stato troppo tardivo per evitare il genocidio e, dopo soli pochi mesi, le medesime minacce si stanno addensando su un paese confinante quale il Burundi. Nella ex-Jugoslavia, poi, l'Onu è stata in grado di alleviare le sofferenze di una parte della popolazione, ma non è neanche riuscita a sancire una tregua effettiva.

Mezzi troppo scarsi

Sarebbe certo ingeneroso attribuire soltanto all'Onu l'insuccesso di queste operazioni. Per quanto le missioni iniziate negli anni Novanta - la Cambogia, la Somalia, l'ex Jugoslavia - siano state di gran lunga quelle più impegnative lanciate dalle Nazioni unite, i mezzi militari e politici che gli stati hanno messo a disposizione sono stati troppo pochi per ottenere risultati più soddisfacenti.

La comunità internazionale non ha capito che casi quali quelli della Somalia e della ex-Jugoslavia richiedevano modalità di intervento molto diverse da quelle conosciute in passato. Il peace-keeping durante la guerra fredda si basava su alcune linee-guida essenziali: a) il consenso dei belligeranti nel disporre le truppe, b) la neutralità, c) il non-uso della forza eccetto che in caso di auto-difesa. L'Onu è progressivamente venuta meno al rispetto di tutti e tre questi principi, senza però modificare sostanzialmente il modo in cui le operazioni di pace venivano gestite sotto il profilo politico e strategico. Il risultato non poteva essere che un fallimento.

C'è una serpeggiante tendenza ad abbandonare il peace-keeping. I politici dell'occidente hanno infatti constatato con mano che, dopo l'euforia iniziale dei mass-media e dell'opinione pubblica, esso non procura altro che critiche. Ma abbandonare questi interventi sarebbe in aperta contraddizione con la funzione istituzionale delle Nazioni unite, poteva essere tollerato nell'epoca della guerra fredda ma diventa inaccettabile nell'attuale quadro internazionale.

Una delle fondamentali lezioni degli anni Novanta è che la distinzione tra conflitti intra e inter-statali non è più un criterio valido per stabilire le priorità di intervento. Ciò che deve contare è la natura delle violazioni compiute contro i diritti umani, e i caschi blu devono essere a disposizione per salvaguardarli. E' quindi responsabilità dei membri dell'Onu, a cominciare dalle grandi potenze, fornire, e tempestivamente, i mezzi necessari.Ma è altrettanto certo che l'impegno della comunità internazionale per gli interventi di pace verrà meno se le operazioni continueranno a risolversi in fallimenti. Per trasformarle in successi, occorre che si rivedano i loro criteri ispiratori. Negli anni Novanta, il peace-keeping deve essere guidato da quattro principi essenziali.

1) Il consenso è una chiave fondamentale per il successo di qualsiasi operazione di pace. Ma è un errore intenderlo come consenso delle fazioni in lotta. Occorre invece ricercare il consenso delle vittime della guerra, ossia della popolazione. E' questa la ragione per cui la missione in Somalia, soprattutto nell'area di Mogadiscio, ha dato risultati così deludenti..

2) Gli interventi umanitari non possono essere intesi solo militarmente. L'indispensabile dispiegamento delle truppe deve essere accompagnato da azioni di pace vera e propria, che portino alla ricostruzione del tessuto della società civile. Non è detto che le istituzioni governative siano quelle più idonee per queste azioni.

L'imparzialità

3) Imparzialità non significa necessariamente neutralità. Essere imparziali significa sostenere il diritto delle Nazioni unite contro qualsiasi violazione, indipendentemente da chi la commetta. Essere neutrali significa non prendere posizione.

E' essenziale che l'intervento iniziale dell'Onu e della comunità internazionale sia tale da modificare drasticamente la vita quotidiana delle popolazioni in un'area di crisi. Ciò significa un tempestivo impegno di mezzi, anche militari, massiccio. Ma questo dovrebbe facilitare la successiva ridistribuzione delle missioni da finalità militari a quelle civili.

Questi quattro punti potrebbero avere un ruolo decisivo nel risolvere la crisi politica europea più difficile dalla fine della Seconda guerra mondiale: la tragedia jugoslava. In Bosnia oggi si gioca con la vita di milioni di persone. Ma c'è un'altra posta ugualmente importante: dal successo o dal fallimento dell'operazione dipende il futuro dei caschi blu.

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